L’uomo da sempre riflette sulla morte e su cosa possa esserci dopo di essa. Sia il credente che l’ateo speculano su di essa: unica certezza che hanno in comune.
Don Gianni in questa sua analisi ci propone un approfondimento sulle “cose ultime “ ossia sui Novissimi secondo l’escatologia cristiana che non può essere categorizzata come appartenente ad una religione tra le religioni del mondo.
Egli scrisse nel suo libro Profezia:”È il Cristianesimo una variante della religione? O vi è nel Cristianesimo qualcosa di assolutamente diverso dalle religioni? Il Cristianesimo non ha posto l’uomo innanzi al divino, ma Dio all’interno dell’uomo e l’uomo all’interno di Dio: porta dunque in sé un principio di differenza dalla religione. Non a caso la parola più alta sia nel Cristianesimo che nella civiltà che da esso è nata, l’Occidente, è la parola libertà”. Queste frasi di don Gianni presentano la cifra della differenza cristiana dalle religioni e possono aiutarci nella lettura delle sue speculazioni in merito a questo tema. Egli, infatti, si spinge analiticamente nelle profondità del messaggio cristiano evidenziandone la sua attualità in un mondo in cui l’uomo acquisisce sempre maggiore consapevolezza di sé e del creato attraverso gli sviluppi della scienza e della tecnica. Buona lettura (Alessandro Gianmoena)
Secondo quanto riassume la dottrina della Chiesa Cattolica, si aprono come noto all’uomo tre possibilità: la salvezza eterna e una felicità perfetta nel paradiso; la perdizione e una sofferenza eterne nell’inferno; un limitato periodo di purificazione nel cosiddetto purgatorio, nell’attesa che l’anima divenga del tutto omogenea con la realtà paradisiaca.
Ma vi è anche un’altra attesa: quella della resurrezione della carne, che avverrà per ognuno alla fine del tempo concesso all’umanità sulla terra. Nel Vangelo di Giovanni (6, 39-40), Cristo promette, con chiarezza, la resurrezione “nell’ultimo giorno”. San Paolo ribadisce questa promessa nella prima lettera ai Corinzi (15,23).
E tuttavia occorre chiedersi: cosa si intende per “ultimo giorno”? Per noi viventi sulla terra, l’ultimo giorno è appunto quello conclusivo della storia umana, coincidente con il ritorno del Signore. Ma per chi non fa più parte essenzialmente di questa storia, della storia dell’universo sensibile, quale significato potrebbe avere? E, inoltre, cosa significa il termine “attesa” per coloro che sono morti a questo mondo? E, in generale, cos’è il tempo? Cercare di rispondere a queste domande è essenziale per capire, per quanto possibile, quale destino attende l’uomo dopo la morte. Pur essendo consapevoli, come afferma San Paolo (I Corinzi, 12), che noi ora possiamo vedere solo in modo enigmatico; e che non sappiamo cosa saremo, pur essendo certi che saremo “simili a Lui” (Prima lettera di Giovanni 3, 2).
Fra coloro che hanno affrontato il problema del tempo, emerge, nell’antichità, S.Agostino, nella sua opera “Le Confessioni”. Le sue intuizioni sono profonde, e valide ancora oggi in molti aspetti. Fondamentale la sua asserzione secondo cui Dio, che è creatore di tutto, è creatore anche del tempo, e quindi non può essere soggetto ad esso.
Nella sua essenzialità Dio è dunque esterno al tempo. Successivamente, nella seconda metà del XVII secolo, il fisico e matematico inglese Newton sosteneva (secondo la nota definizione riportata nella sua opera “Philosophie Naturalis Principia Matematica”), che “il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura, senza relazione con alcunché di esterno, scorre uniformemente”, con ritmo costante. Esso è distinto dallo spazio, esiste semplicemente, è rigido, non è in alcun modo influenzabile o modificabile, è comune in tutto l’universo, ed è suddiviso in passato, presente e futuro. Secondo questa concezione, solo il presente é reale. Il futuro viene considerato non esistente, mentre del passato poco si può affermare, a parte la memoria che si ha di esso.
Questa teoría si è conservata per un paio di secoli. Poi è stata rapidamente superata, a seguito essenzialmente delle ricerche di Albert Einstein. Secondo le teorie di quest’ultimo (confermate sul piano sperimentale), il tempo non è più assoluto, ma relativo. Esso è cioè flessibile: il presente di un osservatore non coincide necessariamente col presente di un altro osservatore. Così per il suo passato e per il suo futuro. Nella sua realtà ultima, e a differenza di quanto sosteneva Newton, il tempo di Einstein “ha” relazione con l’esterno, ed anzi non è separabile dallo spazio, bensì spazio e tempo sono interconnessi in un “continuo spazio-temporale”. Essi costituiscono, di fatto, le quattro dimensioni nelle quali si estende la materia osservabile. In aggiunta al presente, la realtà di quest’ultima si prolunga pertanto anche in ciò che consideriamo il passato e il futuro.
Vi sono difficoltà ad accettare una visione di questo genere, che appare in contrasto col senso comune, e soprattutto con il principio di causalità, secondo cui non può esistere il frutto di decisioni che non sono state ancora prese. E tuttavia la compresenza di tutte le parti della storia è proprio lo “strano” risultato delle teorie relativistiche (si veda, ad esempio, la “La Trama del Cosmo”, del fisico americano Brian Greene, che è di particolare interesse fra le opere recenti dedicate al tema). Le teorie di Einstein non ci permettono una comprensione totale della natura del tempo. In particolare, non ci rivelano il motivo per cui l’io cosciente percepisce il tempo, invece che come dimensione, come qualcosa che scorre. La stessa espressione “scorrere del tempo” non è corretta. Perché se la realtà comprende ugualmente passato e futuro, si deve pensare che la storia universale sia come un grande fiume immobile. “ghiacciato”, sul quale non è il tempo, ma è la coscienza umana che scorre illuminandolo istante dopo istante, col ritmo uniforme misurato dagli orologi.
Tenuto conto di tutto quanto precede, possiamo ora intuire qualcosa di più riguardo alla situazione umana post-mortem. In sostanza, ora sappiamo che chi esce dallo spazio esce anche dal tempo (e viceversa) Pertanto, se il corpo fisico umano viene distrutto, l’io personale ad esso correlato non è più presente nella materia, e quindi nello spazio. A causa di ciò, esso non è più presente neanche nel tempo e, in definitiva, esce dall’universo che noi conosciamo. Ma se esce dall’universo, esso non può che ritornare nelle mani di Dio suo creatore. Fuori dell’universo, infatti, non è ammissibile il permanere di altra presenza se non di quella di Dio.
Si può ora osservare, che proprio in conseguenza della suo essere esterno al tempo Dio si definisce “io sono”: non io fui, e io sarò. Ciò vuol dire che il fui e il sarò sono compresi nel “io sono”. Ne deriva che futuro e passato sono sempre da Lui creati al presente. Il suo io, a differenza del nostro, non è legato ad un qualche scorrere nel tempo. In altri termini: futuro e passato sono interamente, e realmente, esistenti e compresenti di fronte a Dio. Quindi anche tutto lo spazio, che come si è visto è integrato con il tempo nel futuro e nel passato. S. Agostino l’aveva già intuito affermando, nelle “Confessioni” (Cap.XVI), che oltre al presente anche il passato e il futuro esistono (“sunt ergo et futura et praeterita”). A conclusione di percorsi diversi, teologia agostiniana e pensiero scientifico einsteiniano appaiono dunque concordare almeno su questo punto.
Ma se Dio ha di fronte a se tutti i tempi e tutti gli spazi, proprio per questo dobbiamo pensare che egli abbia di fronte a sé anche i corpi di tutti gli uomini vissuti sulla terra, inclusi quelli dei risorti. Ne consegue, che se l’io personale rientra nelle mani di Dio, entra per un istante in quello che noi definiamo “eterno”, sperimentando la compresenza dei tempi, e quindi anche la presenza del suo corpo risorto.
Ma essendo destinato ad entrare in tale corpo, proprio per questo è necessario che, dopo tale istante ( istante del giudizio), l’io personale umano entri subito, e veramente, “nel suo corpo”. Infatti, la parola “attendere”, che ha un preciso significato per i viventi sulla terra (che, giustamente, aspettano di risorgere dopo morti solo “nell’ultimo giorno”) per i viventi in Dio non ha alcun significato l’ultimo giorno è già arrivato. Ciò che per i viventi sulla terra è il futuro, per i viventi nel seno di Dio è il presente.
Il Sacramento dell’Eucaristia ci porta alle stesse conclusioni. In esso si ha la transustanziazione del pane e del vino consacrati nel corpo e nel sangue di Cristo. Ma esso presuppone anche un nostro contatto reale con tale corpo e con tale sangue, e quindi fra la nostra corporeità e la corporeità del Signore. Con la partecipazione all’Eucaristia si forma con Cristo un solo corpo: la Chiesa cattolica lo sottolinea nel Nuovo Catechismo (p.347), riassumendo i diversi passi specifici nel Nuovo Testamento. Questo contatto può però avvenire solo se c’è comunanza di caratteristiche, e cioè se c’è omogeneità di fondo di un corpo con l’altro corpo. In altri termini, se essi appartengono allo stesso genere di universo. Il nostro corpo, corruttibile e mortale, non può però appartenere all’universo in cui è vivente il corpo di Cristo. E pertanto, quello che tramite il pane e il vino consacrati si unisce al corpo trasfigurato del Signore non può essere il nostro corpo terreno. Al contrario, si deve ammettere che esso consista in una corporeità materiale, anch’essa nostra, e direttamente corrispondente a quella posseduta sulla terra, ma presente già ora “nell’altro” mondo, e tale da avere le caratteristiche di quest’ultimo. Dobbiamo pensare, in definitiva, che essa coincida con il nostro corpo risorto che, come si è visto, è già presente nella prospettiva di Dio.
In altri termini: possiamo affermare che come nell’Eucaristia il corpo di Cristo si fa sostanza del pane e del vino consacrati ma corruttibili, così il corpo risorto incorruttibile sia sostanza del corpo terreno corruttibile. Cosi pure, analogamente a come il corpo terreno assimila intimamente il pane e il vino consacrati, così il corpo di Cristo si unisca profondamente ai corpi redenti da Lui, conferendo loro la sua stessa Vita divina.
Si può ora osservare che di tale corpo umano, risorto nell’universo redento e trasfigurato, è sempre responsabile l’io personale ancora operante nella realtà terrena. Pur presente nel tempo terreno, a causa della sua immaterialità l’io personale può in qualche modo operare da fuori del tempo: e cioè dall’eterno, quindi, possiamo aggiungere, a somiglianza di Dio. Per questa via, il futuro di ogni individuo umano viene sempre deciso “adesso”, e assume esistenza ugualmente “adesso”. Viene, fra l’altro, superata l’obiezione derivante dal principio di causalità: infatti, nell’eterno, non vi è più alcun fenomeno che possa anticipare la sua causa.
Agendo dall’eterno, analogamente a come costruisce la storia del corpo contenuto nell’universo sensibile, l’io personale costruisce quella del suo corpo nella terra dei risorti. In questo modo, esso collega fra loro le differenti parti di quello che possiamo definire “l’universo totale”: la parte corrotta dal peccato originale e la parte redenta e risorta. L’io personale rappresenta, in questo senso, il ponte fra esse. Esso determina, per questa via, la natura e la sorte del corpo in attesa di lui. Di fatto, al momento del giudizio divino, è questo corpo che decide del destino finale della persona umana. Nel senso che, a seconda della presenza in lui della carne e del sangue di Cristo (e quindi della Vita), oppure dell’assenza di essi, il nuovo corpo rappresenta, per ognuno che è vissuto nella vecchia terra, una sorta di testimone di difesa o di testimone d’accusa. Nel destino di vita o di perdizione che ne deriva, questo corpo trascina per sempre con sé l’intera persona umana. In conclusione, l’Eucaristia donata a noi da Cristo per amore, e per consentirci di partecipare alla sua Vita eterna, appare anche una preziosa finestra per comprendere meglio la realtà finale dell’uomo.
Gianni Baget Bozzo