Capii, in quei momenti, che la lotta contro ciò che sentivo come un tradimento del partito democristiano verso il suo popolo domandava una reazione più netta. Sapevo che lottare nel mondo cattolico contro la Dc era difficile, ma ero spinto da un motivo spirituale, non da un calcolo politico: il calcolo politico avrebbe suggerito di accettare lo spostamento della Dc verso il Pci.
Decisi di lasciare il quindicinale e di fondare un movimento: i centri per l’Ordine civile. Tambroni mi affidò la direzione di una rivista, Lo stato, che combatteva contro la svolta del governo Fanfani. Ma il suo desiderio era di rilegittimarsi nella Dc, mentre il mio sogno era creare un nuovo partito di cattolici per la libertà, omogeneo alla tradizione sturziana. Per un anno, il ’61, ebbi un certo spazio. Il centrosinistra era sorto a livello amministrativo nelle grandi città del Nord, Genova compresa, con grande resistenza del cardinale Siri, ma il nodo della questione era ancora aperto e fu chiuso solo dal congresso di Napoli del ’62. I centri per l’Ordine civile vissero in quel periodo perché l’opposizione dell’opinione pubblica e del popolo democristiano era forte. Ma la Chiesa, compreso il cardinale Siri, li sconfessò. La Chiesa aveva seguito la Dc.
Era iniziata una nuova storia, che non aveva rapporti con la tradizione democratico-cristiana. Io mi sentivo più democristiano dei democristiani, omogeneo al popolo che votava Dc. Il mio ultimo tentativo di presentare per le elezioni romane del ’62 una lista di Ordine civile mi condusse a un risultato per me decisivo. Andai dal cardinale Alfredo Ottaviani, segretario del Sant’Uffizio, che mi disse: “Lei ha il dovere come cattolico di lottare contro il centrosinistra. Vada a dire al cardinale Traglia che ho espresso, nella mia funzione, questo giudizio”. Il cardinale Traglia aveva sostituito il cardinale Siri nella commissione per la direzione dell’Azione cattolica. E mi rispose: “Se lei fa una lista contro la Dc, la Chiesa la condanna”. La Chiesa era insomma già spaccata tra la posizione di Pio XII e quella del nuovo Papa, Giovanni XXIII.
Era il dramma del Concilio, quello che avevo già di fronte. Avrei potuto allora fare molte cose, anche rientrare nella Dc, benché da sconfitto. Ma il mio interesse non era politico, era spirituale. Sentivo la necessità di una lotta per la tradizione del pensiero cattolico, di una difesa della concezione cattolica della società e dello Stato. E del resto comprendevo che quello che si stava delineando era un conflitto interno al Cattolicesimo. La mia decisione fu perciò di abbandonare la politica, che non mi aveva mai affascinato come realtà, ma come simbolo. La politica è il luogo in cui avviene il confronto delle idee, e per me era essenziale mantenere l’esperienza democristiana delle origini, quella di Sturzo e di De Gasperi. Mi ritrovavo troppo “democristiano del ’48”, per essere democristiano nella Dc statalista di Fanfani e in quella partitocratica di Moro. Rimasi con l’etichetta di “tambroniano e di fascista” per cinque anni: dal ’62 al ’67. Furono anni di solitudine e vita interiore, con un piccolo gruppo di amici a Roma, a Genova e a Rovereto. Ci riunivamo in sale parrocchiali come cospiratori e leggevamo testi patristici, testi mistici e San Tommaso. Ci sentivamo come esuli nel mondo dominato da una realtà ecclesiastica e politica diversa da quello in cui noi credevamo, fedeli alla Chiesa di Pio XII.
Si teneva allora il Concilio vaticano II. Capii che la Chiesa attraversava un momento difficile non perché i padri conciliari, in gran parte nominati da Pio XII, non fossero orientati nella ortodossia cattolica, ma perché il concilio, divenuto un evento spettacolare, subiva la pressione dei mezzi di comunicazione sociale. I media avevano interamente mutato la natura del concilio. Quello che si attendeva era una variazione della Chiesa0 cattolica, annunciata nel termine di “aggiornamento” con cui Giovanni XXIII aveva definito il concilio. I media crearono un clima e imposero l’idea di una Chiesa che doveva cambiare per essere credibile al mondo. Vidi cominciare a realizzarsi ciò che la Voce mi aveva detto. Ormai comprendevo (e del resto ciò era esplicito nelle locuzioni della Voce) che la crisi politica era il segno, l’effetto e l’annuncio della crisi ecclesiastica. Forse fu questo a spingermi, su indicazione del rettore della Università lateranense, Antonio Piolanti, a tornare sui banchi di scuola e studiare la teologia. Furono cinque anni di esercizi spirituali, rallegrati dalla visita domenicale a molti santuari d’Italia. Mi laureai in teologia in Laterano nel 1966.
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