Anno liturgico ciclo A
Commenti ai Vangeli delle festività
Gennaio 2023 – Maggio 2023
- 15 Gennaio 2023
Seconda domenica del tempo ordinario
Is 49, 3, 5-6
Sal 40
1 Cor 1, 1-3
Gv 1, 29-34
“Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie i peccati del mondo”
Il mondo è pieno di dolore innocente
Il Vangelo di questa domenica ci narra del dolore: la più umana e la più forte delle esperienze. Giovanni il Battista parla di Gesù come Agnello di Dio, che prende su di sé i peccati del mondo. Il riferimento è al profeta amato dal Battista, Isaia. Il profeta ha descritto una figura singolare di un uomo scelto da Dio, amato da lui, eppure, appunto per questo, umiliato e ucciso, condotto al macello come un agnello mansueto.
Questa figura sembra contraddire tutto un filone di pensiero dell’Antico Testamento in cui il giusto è ricompensato da Dio con benedizioni terrene. Il Messia è il re d’Israele, e Davide, il suo capostipite, è una figura di potenza. Ma qui abbiamo la connessione dell’elezione divina e di un compito di unificazione di tutti i popoli unito alla sofferenza e alla morte. Questa figura del servo di YHWH, del servo di Dio, è per i cristiani la profezia del Cristo. Qui nel racconto del Vangelo secondo Giovanni, il Battista indica che già alla co-scienza di Gesù è presente questa figura. Non è sulle immagini di gloria ma su questa misteriosa immagine, in cui la gloria di Dio è connessa alla umiliazione e alla morte, che egli inaugura il suo cammino. E così ci troviamo di fronte a un problema antico quanto il mondo: la sofferenza dell’innocente.
Ivan Karamazov afferma, in un celebre testo di Dostoevskij, che egli rifiuta di accettare un mondo in cui esiste il dolore innocente, fosse pure solo il pianto di un bambino massacrato. Il mondo è pieno di dolore innocente e vi è ben più nel mondo del pianto di un bambino. Potremo mai renderci conto del perché della violenza su coloro che non si difendono, che non fanno alcun male? In realtà non vi è risposta a questa domanda.
Il Vangelo di Giovanni ci ha detto nel tempo di Natale più volte (tanti anni fa era letto in latino alla fine della messa), che Gesù è il Figlio di Dio, l’Unigenito del Padre: ora ci dice che il Figlio di Dio è un sofferente innocente. Dio viene nel mondo in questa forma. Questo ci dice il Battista quando insegna che il Figlio di Dio è l’Agnello di Dio e che su di lui, innocente, scendono i peccati del mondo. Ma non bastava questa vittima? Tanti altri innocenti, milioni e milioni, sono stati sacrificati dopo Gesù.
La tradizione ebraica ha visto in questa figura il popolo di Israele, anche perché con tale nome, in uno dei canti di Isaia, il servo di YHWH è così chiamato: e anche questa sto-ria del popolo ebreo evoca una sofferenza innocente, quella dei campi di sterminio e di una dolorosa antica storia di persecuzioni. Tuttavia il canto del servo termina sempre con un inno di gloria, che dopo il Cristo leggiamo come il gesto di Dio, la risurrezione di Gesù.
Ciò significa che dentro la sofferenza innocente è nasco-sta la potenza divina, che costruisce la città eterna e la città temporale, la vita eterna della persona in Dio e la vita temporale degli uomini sulla terra. Senza la prima non vi è giustizia, perché nessuna persona può essere il prezzo della pace sulla terra. Solo la vita eterna di Dio può essere una risposta alla sofferenza innocente. Senza la seconda non vi è speranza, perché è infine in questa grande storia comune terrestre che vorremmo vedere la luce.
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 22 Gennaio 2023
Terza domenica del tempo ordinario
Is 8, 23b-9,3
Sal 27
1 Cor 1, 10-13.17
Mt 4, 12-13
Quella passione d’amore da ricercare in noi stessi
Il Vangelo di oggi ci parla dei momenti di gioia di Gesù, quando egli cominciava a camminare tra il suo popolo come profeta. Dio è per lui una esperienza di gioia: e gli uomini sembrano tutti amici nella giovinezza della profezia. Basta dire a dei pescatori: «vieni e seguimi» e subito loro abbandonano barche e reti. Il messaggio pare dolce, rivolto a tutti: convertitevi, il regno dei cieli è vicino. In Galilea Gesù non aveva a che fare con i sapienti e i potenti, non con i farisei e i sacerdoti, non con il mondo della legge e del sacro. Risiedevano gli uni e gli altri, farisei, scribi e sadducei a Gerusalemme, la città unica, la città santa del re Davide, del tempio di Dio, del magistero della sinagoga, della fresca potenza del potere di Cesare. Ma in Galilea, tra un popolo che era stato circonciso ed ebraizzato a forza dai re sacerdoti di Gerusalemme meno di un secolo prima, le parole più liete e più gravi non sembravano parole di sfida, di sangue e di morte.
L’annuncio radicale, Dio sta per manifestarsi, il regno dei cieli è vicino, sembrava quasi andare da sé. Non appariva come una scure che recideva alla radice il potere della legge e del sacro. La sua novità e la sua radicalità si confonde-vano, come accade, come è accaduto, come accadrà, con la loro giovinezza. Come è diverso il Vangelo degli inizi da quello, denso di forza e di tempesta, che compare alla fine, quando non più le folle, ma il sacro, la legge e il potere, affrontano a Gerusalemme il profeta di Galilea! Gesù predica che Dio è vicino e immediato, che abita non solo il tempio di pietra ma il tempio di carne, il cuore umano. Il regno di Dio vicino non annuncia il terrore e la potenza del dio dei fulmini, dei terremoti e delle tempeste, non allude alla potenza dell’ira e della condanna, antichi attributi del divino, in Israele, come fuori di Israele.
Il regno di Dio è un giovane profeta che chiede agli uomini di guardare il loro cuore; e di amare Dio, presente in esso. Il regno divino è la passione d’amore degli uomini per lui; Dio cerca la passione d’amore degli uomini.
Questo era scritto e nascosto in un libro della Scrittura ebraica, chiamato il canto per eccellenza, il Cantico dei cantici: la passione d’amore di un pastore per una pastora, confuso e mischiato con l’amore di re Salomone e la regina di Saba. Ma l’amore campestre e quello regale vogliono esprimere una sola cosa: la passione d’amore di Dio per l’umanità, per ogni persona umana. E anche il lato opposto, più segreto, più difficile. Non l’adorazione, il rispetto, il timore del cuore umano per Dio. Ma la passione d’amore del cuore umano per Dio.
Quando Gesù passa tranquillo dicendo l’inosabile, che il regno di Dio è nel cuore di ogni uomo e che ogni uomo può dare spazio, incoronare questo regno, le due passioni d’amore, quello di Dio per l’uomo, quella dell’uomo per Dio, si incontrano. E su questa ondata possente che nascono quelli che saranno gli apostoli, quelli che continueranno il cammino di Gesù, nella gioia della Galilea e nel sangue di Gerusalemme, che uccide i profeti.
Sono pescatori di Galilea, hanno inteso quella chiamata e ne sono rimasti presi: e forse non hanno capito la metafora, per noi tanto semplice, scontata da duemila anni di cristianità: «Vi farò pescatori di uomini».
Sarà la loro una lunga storia, che talvolta la storia, talvolta soltanto l’immaginazione, hanno descritto. Ma è certo che da Roma alla Spagna, all’India, in due generazioni, quelle parole dette a dei pescatori di Galilea, gente senza lettere, percorreranno senza armi l’ecumene antica.
E forse qualcosa della gioia di Galilea sarà rimasta in es-si che, tutti, salvo il prediletto Giovanni, conobbero, nella loro persona e nella loro morte, l’ora di Gerusalemme, l’ora della croce.
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 29 Gennaio 2023
Quarta domenica del tempo ordinario
Cadrà come il comunismo il capitalismo senza cuore
Sof 2,3; 3, 12-13
Sal 146
1 Cor 1, 26-31
Mt 5, 1-12
Cadrà come il comunismo il capitalismo senza cuore
Il testo evangelico di questa domenica è la pagina più nota del Vangelo, quella che ha avuto più risonanza, amata da Gandhi e da Tolstoj: è l’inizio del discorso sulla montagna, la proclamazione delle «beatitudini». In esso avviene il grande rovesciamento evangelico delle immagini di Dio e del divino in tutte le religioni.
Il discorso di Gesù indica la parte di Dio nella storia: non sono i ricchi e i potenti, ma nemmeno i giusti e i pii. Sono i poveri che hanno speranza, i misericordiosi, coloro che han-no fame e sete di giustizia, coloro che fanno pace attorno a loro, i perseguitati ingiustamente, coloro che sanno avere misericordia. Né il mondo del potere né quello della virtù sono la parte di Dio nella storia.
Egli dona il suo regno ai poveri che hanno speranza, sazia coloro che hanno desiderio di giustizia, consola quelli che piangono, dona misericordia ai misericordiosi, chiama suoi figli coloro che diffondono pace. La parte di Dio è dunque una folla immensa, che non ha potere, ricchezza e nemmeno opere di religione o di virtù. È l’umanità che ha soltanto il suo desiderio, la sua speranza, il suo cuore, le sue lacrime, le sue buone intenzioni. Questa folla è praticamente tutta l’umanità, perché non vi è uomo che non si possa riconoscere nel desiderio, nel cuore, nelle lacrime, nella compassione, nella speranza. Qui siamo oltre le divisioni dell’economia, della politica, della morale, della religione.
Questo volto anonimo e diffuso, il volto comune degli uomini, è la parte di Dio sulla terra, il luogo dove egli agisce. Gesù si colloca qui oltre il sacro, il potere, la legge. Si colloca oltre tutta la religione di Israele. Solo Dio può cambiare così umanamente il volto di pietra che secoli di religione, di legge e di potere hanno impresso sul viso del Padre che sta nei cieli.
Egli è oltre le categorie alte degli uomini, ma è disceso in quelle più umili e più basse. Senza questa pagina, il Vangelo non sarebbe comprensibile o non sarebbe più il Vangelo.
Questo è l’inizio e il compimento del Vangelo. Se la storia umana divenisse quello che le «beatitudini» dicono, le differenze morali, religiose, sociali, politiche, economiche sarebbero consumate. La storia finirebbe. Ma Gesù non vuole imporre la misericordia con la forza: non vuole sradicare con la violenza il sacro, la legge, il potere. Nemmeno vuole condannarli.
Questo Vangelo è usato violentemente dai non violenti, i quali lo usano per fare quello che Gesù rifiuta di fare, proprio in questo testo: giudicare e condannare.
Le «beatitudini» sono il mistero divino rivelato nel volto dell’umanità comune: non possono diventare un giudizio storico. Esse dicono solo dove è il luogo in cui Dio sta: sta nella storia là dove è la gente che non fa storia. Ma dicono anche che, a partire da coloro che non contano, Dio rovescia quelli che contano. Ciò che è debole di Dio, dice l’apostolo Paolo, è più forte di quel che è forte degli uomini.
Abbiamo visto cadere il comunismo senza cuore, vedremo cadere anche questo capitalismo senza cuore che sembra averne preso il posto. Non per la forza della rivoluzione. Infine il comunismo è caduto perché era caduto nella coscienza della gente comune. Accadrà così anche con questa bella e grande macchina sociale che è il mercato. Anch’esso passerà sotto il peso della speranza dei poveri della terra per cedere il posto a qualcosa di più umano. Che è poi il regno di Dio.
Il cristiano spera che la storia divenga il sermone delle beatitudini, spera non nel regno dei giusti, ma in quello dei misericordiosi, che sono il volto di Dio.
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- 5 Febbraio 2023
Quinta domenica del tempo ordinario
Is 58, 7-10
Sal 112
1 Cor 2, 1-5
Mt 5, 13-16
Essere sale della terra per dare gioia agli altri
«Voi siete il sale della terra»: sono le parole che Gesù dice alla folla che lo ascoltava. E si rivolgeva a loro in quanto ebrei, popolo che aveva ricevuto l’elezione e la rivelazione di Dio. Ma immediatamente, dopo questo riconoscimento, l’amara verità: «Se il sale diventa scipito, a che serve se non a essere buttato via e calpestato dagli uomini?». Era un in-vito a rendere visibile nella vita del popolo la verità del Dio che li aveva eletti. Queste parole vengono rivolte ora ai cristiani.
Il sale, nella cucina antica, era usato per la conservazione del cibo: era, quindi, una condizione essenziale del nutrimento. Essere sale significa oggi saper infondere attorno a sé le motivazioni del vivere. Il vivere è oggi segnato o dal peso dell’angoscia o dalla fuga nella banalità. La società che viviamo ha come suo centro la crescita e l’espansione dei consumi, ma ha perso la gioia dei rapporti umani.
Essere sale significa essere per altri cagione di gioia, anche quando questa non è nel nostro cuore. Il cristiano è chiamato a ricordare che in lui vive lo Spirito Santo, capace di infondere serenità anche nelle ore buie e di insegnare a tutti che confortare gli altri è il miglior modo per confortare noi stessi. Per conservare in noi questo sale occorre conservare in noi la memoria di Dio, l’esercizio della attenzione alla sua presenza in noi e fuori di noi, in tutte le circostanze della vita.
Ogni cosa che ci accade viene da lui: siamo sale e luce se sappiamo affidarci in ogni momento alla guida divina. Essa non può risparmiarci il dolore, perché egli stesso lo ha scelto. E questo rimane il mistero di Dio perché noi, se l’avessimo potuto, avremmo creato un mondo senza dolore.
Il gesto più grande che l’uomo possa compiere, quello che nemmeno Dio può fare senza di lui, è conservare la speranza, la fede e l’amore, quando non ci sono ragioni umane per averle. Questo vuol dire creare la nuova creazione, quella che conosceremo quando passeremo dal tempo all’eternità, quando potremo capire quello che non comprendiamo: il mistero del dolore sulla terra.
Questa creazione, la suprema, l’ultima, quella che descrive l’Apocalisse, i «nuovi cieli» e la «nuova terra», non può essere creata solo da Dio: è il frutto della storia umana. Ma nella fede e nella speranza possediamo già la gioia del Dio che sopporta e condivide con noi ogni dolore, compagno sia di ventura sia di sventura.
Quando sappiamo vivere la nostra storia con la compagnia di Dio, quando Dio può vivere la sua eternità in compagnia nostra, allora qualcosa dei nuovi cieli e della nuova terra passa anche nel nostro tempo.
«Voi siete luce del mondo». Possiamo sentire detto a noi, cui ora Gesù si rivolge, questo medesimo invito? Dio ci offre molte occasioni di dare agli altri proprio la sua luce, di riflettere l’amore divino. È importante ricordare che lo Spirito divino risplende in ogni atto di fede, di speranza e d’amore.
Infine, il Vangelo vuole farci apprendere quest’arte: quella di vivere la nostra vita come compagni di Dio. A ognuno che bussa, dice Gesù, sarà aperto.
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- 12 Febbraio 2023
Sesta domenica del tempo ordinario
Sir 15, 15-20
Sal 119
1 Cor 2, 6-10
Mt 5, 17-37
“Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno”
Il paradosso del Vangelo: giusto è chi non sa di esserlo
Il discorso sulla montagna di Gesù, il suo manifesto programmatico secondo il Vangelo di Matteo, mostra uno stile inconfondibile, un’impronta di autenticità. Gesù ama la similitudine e il paradosso, forse questo era anche un modo per differire il suo urto frontale con le autorità di Gerusalemme.
Qui il paradosso è evidente: «Se il tuo occhio destro è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te». Oppure: «Chi dice a suo fratello: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna», cioè l’inferno, nel nostro linguaggio.
Che cosa vuol dire Gesù con questo paradosso? La chiave sta in una frase: «Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli».
La giustizia degli scribi e dei farisei era quella che derivava dalla legge data a Mosè sul Sinai: essa era il contenuto del patto tra Dio e Israele, che rendeva Israele popolo di Dio. La legge è l’essenza di Israele, lo è rimasta anche dopo Gesù.
Gesù diceva al contrario che essere giusto innanzi a Dio non significava obbedire alla legge, al suo insieme di precetti particolari. I farisei avevano esteso con l’interpretazione i precetti della legge: la loro giustizia consisteva nella osservanza dei precetti della legge e della loro tradizione.
Il paradosso di Gesù consiste nello spingere all’assurdo l’idea dei farisei di garantire con ulteriori regole l’osservanza della legge ebraica.
Gesù li estende sino all’assurdo. Dice che una giustizia frutto dell’applicazione meticolosa della norma esteriore non rende giusti innanzi a Dio, che vede il cuore. E sa quanto odio, disprezzo dell’altro, orgoglio, volontà di dominio si nascondano dietro al moralismo e alla religione delle azioni compiute per essere giudicato giusto o anche soltanto per giudicarsi giusto.
Il paradosso evangelico dice che è veramente giusto chi non sa di esserlo, chi opera per passione e per compassione, spinto da un sentimento di amore che ha la sua ricompensa solo in sé stesso.
Nella prospettiva evangelica giudicarsi giusto è un modo di non esserlo. Questa è la punta del paradosso evangelico. E quanti uomini, quante donne sono giusti innanzi a Dio e sono considerati ingiusti dalla gente. E quanti uomini e donne considerati giusti dalla gente non lo sono innanzi a Dio.
Il mondo è tenuto insieme da questa folla di giusti ignoti a sé stessi, appartenenti a tutti i popoli, a tutti i continenti, a tutte le religioni. Perché Gesù non fonda una religione, fonda un modo di essere, porta alla luce la verità dell’uomo.
La religione è una forma della storia, ma Gesù esprime nella storia l’uomo eterno, il profondo dell’esistere umano. Ridurre Gesù a una religione è diminuire ciò che la fede dice di lui, che egli è «il primogenito della creazione», l’uomo universale, il Figlio del Padre. Con questa autorità egli formalmente si pone contro e oltre la legge e fonda così la nuova alleanza, il patto con tutti gli uomini.
San Tommaso, il maggior teologo cattolico, dice che la legge di Gesù non è nemmeno il Vangelo ma è lo Spirito Santo infuso nei cuori umani. E chi conosce i confini dello Spirito di Dio e del cuore dell’uomo? Perciò il discorso sulla montagna è rivolto a una folla: e una folla compare in un altro libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, «una folla che nessuno poteva contare».
L’Apocalisse vede questa folla come il regno di Dio nell’eterno. Le due folle si corrispondono. Nell’uno e nell’altro caso esse rappresentano la storia umana, l’umanità.
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- 19 Febbraio 2023
Settima domenica del tempo ordinario
Lv 19, 1-2.17-18
Sal 103
1 Cor 3, 16-23
Mt 5, 38-48
Moralità, scegliere il bene senza costrizione
Continua il Vangelo del discorso della montagna, il discorso in cui Gesù dà ai suoi discepoli la nuova legge, quella che compie la legge ebraica, la legge di Mosè.
La legge di Mosè ha insegnato all’uomo che occorre scegliere tra il bene e il male: egli ha dunque appreso la legge della libertà, che è dimensione propria dell’uomo. Appare in essa la moralità come valore di una scelta del bene fatta senza costrizione. E tuttavia Gesù dice ora ai suoi discepoli di essere perfetti non come è perfetto l’uomo, ma come è perfetto Dio: «Siate perfetti come perfetto è il Padre vostro celeste».
E come si manifesta la perfezione del Padre celeste? Con il fatto che «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti».
Questo dovrebbe far sussultare il pio ebreo, perché queste parole sembrano la negazione del Dio della legge, il quale non è affatto descritto così. Il Dio dell’Antico Testamento è un Dio che protegge i buoni e colpisce i malvagi, è un Dio giusto. Il Dio che qui viene annunciato non è giusto, è misericordioso: in realtà egli non distingue tra buono e malvagio e tra giusto e ingiusto.
Sulla base di che cosa Gesù afferma che Dio è così? Come fa a dire che il Padre celeste, di cui egli parla, si comporta in modo così diverso dal YHWH dell’Antico Testamento? Nessun versetto della Scrittura ebraica è preso a testimonianza e sostegno di questa affermazione.
Gesù si rifà semplicemente a ciò che gli ebrei avevano in comune con i pagani: il divino che appare nella natura, che si manifesta nella imparzialità per l’uomo dei fenomeni naturali: il sole e la pioggia.
E quale è il modo in cui l’uomo imita Dio? Gesù lo dice chiaramente: «Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori».
Nell’Antico Testamento era stato detto di amare il prossimo. Colui che perseguitava l’ebreo era dall’Antico Testamento considerato un nemico di Dio e quindi oggetto di un «odio perfetto».
I Salmi sono pieni di maledizioni sui nemici del salmista, tanto forti che la Chiesa, nella riforma della liturgia delle ore, le ha semplicemente omesse. Le maledizioni sono coerenti con la concezione della Bibbia ebraica: il popolo di Dio, Israele, è unito dalla legge di Dio, combattuto dal mondo pagano o dagli stessi ebrei che dimenticavano di essere il popolo dell’elezione e della legge.
Gesù ha chiaro il sentimento e l’intenzione di modificare la legge data a Mosè: egli contrappone l’amore per i nemici all’amore per il vicino, per il prossimo, cioè per l’altro ebreo. Gesù fa appello al Padre dei cieli, che non condanna ed è manifesto a tutti gli uomini mediante il sole e la pioggia.
Certo sorgono obiezioni a questa posizione di Gesù. Anche la natura è crudele con i viventi, con gli uomini.
Il Nuovo Testamento non rinnega l’Antico, non dimentica il ruolo della libertà e della moralità. Ma dà a esso una forma diversa, la forma stessa del Padre celeste che solo nella nuova creazione si manifesta come egli è.
La vita eterna comunica con ogni vita, così come l’amore, che non conosce limiti, si manifesta oltre ogni morte.
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Tempo di quaresima
- 26 Febbraio 2023
Prima domenica di quaresima
Gen 2, 7-9; 3, 1-7
Sal 51
Rm 5, 12-19
Mt 4, 1-11
“Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”
Le tentazioni di Satana e la libertà dal potere
Comincia la Quaresima e da secoli si legge uno dei testi più drammatici del Vangelo: il racconto delle tentazioni di Gesù. L’attore principale nel racconto è il tentatore, Satana. Questo è il solo dei testi del Nuovo Testamento in cui Satana parla, appare come un soggetto personale. Nell’Antico Testamento ciò accade nel libro di Giobbe. Il racconto ha dal secolo scorso un’interpretazione da cui non si può prescindere, il racconto del Grande Inquisitore né I demoni di Dostoevskij. Il Grande Inquisitore dice a Gesù tornato sulla terra e che egli ha fatto imprigionare: hai fatto un gravissimo errore, hai respinto ciò che il lucidissimo principe delle tenebre ti ha offerto. Egli sa bene che tre cose possono sedurre gli uomini: la ricchezza, i miracoli e il potere.
Egli ti ha chiesto di dare pane agli uomini, di fare un miracolo spettacolare e infine di accettare da lui il potere, che Satana possiede in proprio. Ma tu hai offerto loro la libertà: e loro della libertà non sanno che farsene. Allora noi preti abbiamo avuto pietà di loro. In tuo nome abbiamo dato loro ciò che tu non hai accettato da Satana. Abbiamo dato loro il pane, i miracoli e il potere. Ed essi ci hanno seguiti.
In Dostoevskij l’interpretazione è anche una critica di un cristiano russo alla Chiesa romana. Il testo del Grande Inquisitore ha però la capacità di mettere in luce come la libertà dal potere, dal sacro, dalla ricchezza sia un proprio di Gesù. È una chiave per far comprendere al nostro tempo, che ha compiuto i miracoli della tecnologia, che ha aumentato la ricchezza e il potere degli uomini sulla natura e su sé stessi, la coerenza della figura del protagonista dei Vangeli: l’unità e l’universalità della sua figura. Né la potenza tecno-logica, né quella politica, né quella sacrale sono l’uomo.
L’uomo è la libertà, è l’Infinito nel finito, è l’immagine dell’Eterno nel tempo. Oggi in cui gli uomini sono usciti nel mondo occidentale dallo stato di necessità, in cui l’uomo dispone di più beni di quanto può consumarne, l’uomo si domanda molto più che nei giorni della fame che senso abbia l’esistenza. Se dovessimo oggi rispondere a chi domanda «dove è Dio?», potremmo rispondere: nel desiderio che è oltre la liberazione dal bisogno. Il benessere economico mostra la debolezza dell’offerta di Satana. L’intelligentissimo spirito, che sorprese con l’acutezza della sua domanda, lo scrittore russo, ci appare oggi «umano, troppo umano», proprio nel senso in cui usava questa espressione un ammiratore di Dostoevskij, Nietzsche. L’uomo è più che umano, Nietzsche stesso ne è un esempio.
Il lettore di oggi ha troppo interesse al diavolo per non essere attratto e respinto al tempo stesso di fronte a questo Vangelo, uno dei testi evangelici più comprensibili per il contenuto e più difficili ad accettarsi appunto per questo tentativo di esprimere la personalità del demonio. Troviamo infine che questo Satana parlante è una voce conosciuta nel nostro cuore. Satana è in noi e non è noi: esiste come altro e si insinua nei nostri pensieri.
La fantasia medievale ha fatto di lui una figura bestiale, per invitare a disprezzarlo. Il Satana della Bibbia è a livello di Dio nel Vecchio Testamento e a livello del Cristo nel nuovo. E dunque all’altezza dell’uomo, può parlargli al cuore. Ma questa grandiosa scena, che va dal deserto al pinnacolo del tempio, al monte di una geografia irreale in cui compaiono tutti i regni della terra, è rappresentata al discepolo di Gesù per presentargli il modo con cui confrontarsi al tentatore. Esso vuol dare la certezza che è Satana a chiedere consenso all’uomo, nonostante si vanti di possedere tutti i regni della terra. Perché l’uomo è l’immagine di Dio, è la libertà.
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- 5 Marzo 2023
Seconda domenica di quaresima
Gen 12, 1-4
Sal 33
2 Tm 1, 8b-10
Mt 17, 1-9
“Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo”
Sul crinale tra il Vecchio e il Nuovo Testamento
La seconda domenica di quaresima parla della trasfigurazione di Gesù innanzi a tre apostoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. La trasfigurazione è una anticipazione della risurrezione: nel corpo di Gesù appare la gloria divina, si aprono i cieli, compaiono Mosè ed Elia, le due figure fondatrici del popolo dell’alleanza, il popolo ebreo. Risuona la voce divina: «questi è il mio Figlio diletto, ascoltatelo».
I testi che parlano della vita comune o delle sofferenze di Gesù sono comprensibili a tutti. Infine il Vangelo fa parte della memoria dell’occidente, quasi del suo patrimonio genetico: dove il Vangelo parla dell’esperienza comune, esso ha una eco immediata. Ma in questo caso non si tratta di una esperienza comune, ma della risurrezione anticipata: il Padre è già nelle parole di Gesù, la divinità del Figlio traluce nel corpo umano dell’uomo di Nazareth. Le parole del Padre dicono al mondo che egli è il Messia d’Israele, figlio di Dio nel senso in cui lo era il re Davide. Lo splendore delle vesti e il brillare del volto ricordano quello che era già accaduto a Mosè, quando parlava con Dio sul Sinai.
La trasfigurazione, che annuncia la risurrezione, vuole dire ai discepoli che Gesù è superiore a Mosè e a Elia, poiché essi «conversano con lui». Egli è la pienezza della rivelazione fatta a Israele. L’alto monte della trasfigurazione è il nuovo Sinai. Ma Dio non dà una legge: dice semplicemente che Gesù è la sua Parola. E l’uomo Gesù colui che dà la nuova legge al posto di Dio. Siamo sul crinale tra Vecchio e Nuovo Testamento. Tutto il Vecchio Testamento è presente, tutte le sue immagini, tutta la sua dottrina. Ma qui viene il passaggio fondamentale: il corpo di Gesù sostituisce le tavole di pietra della legge data a Mosè.
Il corpo: è nel corpo che compare la gloria divina, persino nelle vesti. Nella carne, nel sangue, nelle parole, nella fisicità di Gesù di Nazareth. Il popolo a cui era stato proibito di fare immagini di Dio si trova di fronte ora a questo eccesso corporale, a questo trasparire divino in un corpo umano, a questo donarsi all’autorevolezza di una parola umana. Non poteva continuare così? Non poteva Gesù trasfigurarsi innanzi a tutto il popolo, con un evento pubblico come nel racconto dell’Esodo Mosè era stato pubblico? Ma Gesù rifiuta la potenza del miracolo, respinge il rigoglio del sacro. L’ha considerata una tentazione di Satana. Il potere del sacro è ambiguo, i miracoli sono solo interruzioni, lampi nella notte della quotidianità. E mai essi convincono se non colo-ro che amano credere in essi.
Dopo tanto splendore, i loro occhi «non videro più nessuno se non Gesù solo». E Gesù parla del suo corpo. Ne annuncia la morte. Il corpo in cui è rifulsa la gloria farà sua la morte dello schiavo. Mosè aveva fatto una morte pubblica, nella commozione di un popolo, dopo aver visto la terra della promessa, narrava il libro dell’Esodo. Elia era stato assunto in cielo sul carro di fuoco, annunciava il libro dei Re. Gesù diceva la sua morte e accompagnava tale parola con l’annuncio della sua risurrezione. Nemmeno quella sarebbe stata pubblica, anche se, come dice Paolo, egli apparve a più di cinquecento fratelli. Ma di questa gloriosa manifestazione non c’è traccia nei Vangeli.
Centrati sulla vita storica di Gesù di Nazareth, i suoi discepoli, che erano pieni della gioia della risurrezione, la supposero come un dato conosciuto. Così essi lasciarono la risurrezione non all’evidenza notarile, ma alla fede dei secoli cristiani.
Il più solenne degli eventi, che modificò la storia, non è un evento pubblico: fu dato non a chi aveva occhi per vedere, ma a coloro che hanno il cuore per credere
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- 12 Marzo 2023
Terza domenica di quaresima
Es 17, 3-7
Sal 95
Rm 5, 1-2.5-8
Gv 4, 5-42
E il Dio si fa carne: il più alto dei Vangeli
I Vangeli domenicali sono d’ora in poi sino a Pentecoste tratti dal più alto dei Vangeli, quello da cui deriva il cuore del cristianesimo: il Vangelo secondo Giovanni. In questo Vangelo Gesù di Nazareth si manifesta come il Dio fatto carne. Mentre nei Vangeli secondo Matteo, Marco e Luca egli sorge dalla storia di Israele, nel Vangelo secondo Giovanni parla il Dio che in essa si è espresso.
Oggi leggiamo il Vangelo della samaritana, il colloquio di Gesù con una donna ebrea che faceva parte di un popolo di-verso da Israele. I samaritani, discendenti da tribù di Israele diverse da quelle di Giuda e di Beniamino, si differenziava-no dai giudei perché avevano un altro tempio: essi non riconoscevano il santuario di Gerusalemme, ma adoravano Dio sul monte Garizim.
Gesù rompe il divieto di comunicazione che impediva ai giudei di parlare con i samaritani e chiede acqua alla donna. Egli le annuncia che darà a tutti gli uomini la capacità di diventare una sorgente d’acqua che zampilla sino alla vita eterna.
L’acqua è il simbolo del dono divino della vita: dire agli uomini che essi divengono sorgenti di vita, e di vita eterna, significa dire loro che essi sono «partecipi della vita divina». Ne segue una delle pagine più importanti e più dimenticate del Vangelo: l’abolizione del sacro e delle divisioni spaziali, culturali ed etniche che il sacro comporta con sé. «Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme, adorerete il Padre: è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano debbono adorarlo in spirito e verità».
Le nostre Chiese ascolteranno queste parole. Ma quale cristiano crede di essere una sorgente della vita eterna? E sa che adorare Dio in spirito e verità vuol dire adorare non con il culto domenicale ma con il sentimento dell’esserne parte per tutto il tempo della propria vita? Adorare in verità il Padre vuol dire sapere che egli è più intimo a noi del nostro io e che egli è il nostro più vero noi stessi. Adorare Dio in spirito vuol dire stare con lui, lasciare che ci faccia compagnia non nelle nostre esperienze religiose e festive, ma in quelle quotidiane e feriali.
Il Padre che il Cristo rivela non vuole essere separato da un tempio e da uno spazio sacro, ma abitare nella vita quotidiana. Per questo il culto cristiano si riduce a un banchetto, di pane e di vino, in cui il Dio personale vive come una cosa, a disposizione degli uomini.
La Messa cristiana, che del sacro ha l’apparenza e il linguaggio, ma non la natura, è la divinizzazione della vita quotidiana. Il Vangelo della samaritana indica tutta la novità di cui il Cristo è portatore, la differenza tra il Nuovo Te-stamento e la Bibbia ebraica.
Questa pagina include tutta l’umanità nella vita divina portata da Gesù. La natura umana appare in essa fatta per divenire divina, per essere trasfigurata nella sua permanente umanità.
La poesia cristiana ha inteso la poeticità, la creatività intatta di questa parola. Così Dante intese
«la sete natural, che mai non sazia
se non con l’acqua onde la femminetta
samaritana dimandò la grazia».
Di questa sete naturale del divino anche in tempi in cui le Chiese non hanno parole ogni uomo rimane testimone: nel grande vuoto dell’Eterno che è l’essenza e l’apertura della vita temporale.
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 19 Marzo 2023
Quarta domenica di quaresima
1 Sam 16, 1b.4a.6-7.10-13a
Sal 23
Ef 5, 8-14
Gv 9, 1-41
Quando la violenza diviene onnipotenza
Il Vangelo di oggi ci porta una delle più belle e forti espressioni di Gesù, una delle più destabilizzanti della religione come tale, una parola che le Chiese possano ripetere solo per fedeltà, ma con imbarazzo. Dice Gesù: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».
Le parole ricordano un testo di Isaia: queste parole, tutt’altro che «gnostiche», hanno un chiaro antecedente nei profeti del Vecchio Testamento. L’uomo religioso sa di sapere: il rito consolida, la legge consolida. Gesù non si colloca in essi. Ma senza rito, senza religione, senza legge, il messaggio di Gesù sarebbe giunto fino a noi?
Questa sua libertà assoluta, che toglie la sicurezza della buona opera, della buona pratica, del buon pensiero, come può continuare nella storia, se non grazie agli uomini di religione, di rito, di legge?
Le Chiese non sono luoghi di libertà, se non quando vengono perseguitate. Altrimenti esse sono luoghi in cui non vi è libertà, se non quella di condannare chi Chiesa, o quella particolare Chiesa, non è. La religione di Israele risponde a Gesù con le parole di ogni religione: «Alcuni dei farisei gli dissero: siamo forse ciechi anche noi?».
Qualunque uomo di religione non può non porre a Gesù queste parole: anche noi, che leggiamo questa tua parola, Signore, siamo ciechi, ciechi in tuo nome? E la risposta di Gesù appare in tutta la sua novità, ancora irriducibile dopo venti secoli di Chiese: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite “noi vediamo”, il vostro peccato rimane».
Non vi è dubbio: il peccato è qui la religione stessa, la sua particolarità innanzi al mondo. E chi sono quelli a cui Gesù si identifica? Paradossalmente, quelli che non dicono «noi vediamo». Gli uomini che non hanno religione.
Gesù è irriducibile a tutte le sue Chiese: ha affidato a Pietro la Chiesa, ma egli si è situato in uno spazio ulteriore. Il Vangelo che leggiamo è quello del discepolo «che Gesù amava», colui che pose il capo sul suo petto, in un gesto di suprema tenerezza, nell’ultima cena.
Questa conoscenza d’amore non perde le parole di Pietro, ma impara a conoscere Gesù oltre di esse. E Gesù può comunicare oltre le parole a ogni uomo e a ogni donna, a coloro che non sanno e non sapranno mai sino al giorno della loro morte che essi lo hanno amato e che hanno udito nel loro amore frammenti del suo discorso amoroso. Essi sono liberati dall’amore e non dalla conoscenza della religione, dalla pratica del rito, dall’osservanza della legge.
Ascoltiamo ogni giorno racconti di violenza che ci suonano terrificanti. Dalla Bosnia ci è giunto un processo in cui apprendiamo di uomini uccisi con la medesima tecnica della recisione della iugulare e del dissanguamento. Questo modo, consueto per uccidere i maiali, è scelto dai capi serbi forse proprio per questo: dire che i musulmani bosniaci non sono uomini.
È terribile morire sotto l’onnipotenza della violenza. Gesù è morto così, sperimentando la potenza del nulla e l’assenza del Padre. Tutte le morti che l’odio dell’uomo avvolge nella potenza del male fanno in ogni vittima rivivere il Dio crocifisso.
Nella discesa agli inferi della morte, i morti uccisi dalla banalità del male (per usare la bella espressione di Hannah Arendt), sperimentano in sé stessi l’identità con chi ha per primo espresso al mondo l’orrore di morire sotto l’odio di «coloro che non sapevano quello che facevano».
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 26 Marzo 2023
Quinta domenica di quaresima
Ez 37, 12-14
Sal 130
Rm 8, 8-11
Gv 11, 1-45
Il mistero della morte e il nostro vero essere
«Io sono la risurrezione e la vita: chi crede in me, anche se muore, vivrà: chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno: credi tu questo?». In queste parole di Gesù a Marta nel Vangelo secondo Giovanni sta l’essenza della fede cristiana.
Crediamo noi oggi questo? O la morte è per noi, di fatto, l’ultima parola della vita, la rivelazione dell’essenza della nostra esistenza? Ci rassegniamo alla morte meno facilmente che in passato, alla morte propria come a quella di coloro che amiamo. La censuriamo con il pensiero: e gran parte del nostro vivere è ossessionato dalla ricerca dell’intensità, come se l’intensità del vivere fosse una fuga dalla morte, che forse così si avvicina.
Come pensare il momento impensabile, in cui il cervello non produce sensazioni, non esprime parole? Si ricorre alla testimonianza dei «bentornati», coloro che sembravano clinicamente morti e morti non erano: e ci commuovono quei racconti della grande pace e luce, come una rivelazione di ciò che ci attende.
Sulle parole di Gesù, crediamo che egli vive in noi, che noi ci cibiamo di lui, che siamo continuazione del suo corpo. Viviamo in lui come persone, come egli è una persona, la radice nostra è un pensiero divino e in quella casa eterna, che abita in noi durante il tempo, siamo raccolti nel giorno eterno. Il nostro vero essere è divino e immortale, il tempo è una dimensione di noi, ma ve ne è una che sta oltre il tempo e nell’Eterno vive dell’Eterno.
Il Vangelo che leggiamo è, come sempre in Giovanni, un evento che ha il valore di simbolo. Per mostrare che chi crede in lui non muore, risuscita un morto, il suo amico Lazzaro. Questo evento ci sembrerà ancora più difficile a credersi che la parola di Gesù. Anche se la fisica di oggi non dà più del mondo un’immagine meccanicista come quella di Newton, l’idea di un’irruzione della vita in un corpo morto da quattro giorni ci sembra parte del dominio della favola. Chi la ascolterà nella chiesa parrocchiale, la ascolterà più come una convenzione religiosa che come un evento.
Ma certamente qualcuno sarà provocato, sia pure per un momento, dalla domanda di Gesù a Marta: «Credi tu questo?». Come rispondere a questa domanda, quando tutta la nostra cultura ci porta a dire che la morte è morte e che i morti non risorgono? Per questo la fede è un atto che va oltre la ragione, oltre la scienza, oltre l’evidenza. Ma l’umanità premoderna non conosceva scienza, eppure aveva il senso che nell’uomo c’era qualcosa di indistruttibile. Poteva essere incluso nella vita cosmica, come nel karma induista. Oppure messo sopra o sotto di essa: in gloria, come in Egitto, sottoterra, come per i greci e gli ebrei. L’uomo non si è mai dispensato dal credersi portatore di una dimensione metatemporale. Perdere questo sentimento vuol dire perdere le radici della differenza umana che ha fatto del mondo «una fabbrica di divinità» (Bergson).
Credi tu questo? Difficile alla ragione dire «sì». Ma difficile egualmente dire «no». Il «no» all’Eterno toglie all’avventura umana radice, destino, significato.
Celebreremo tra poco la Pasqua. Ma Gesù ha assunto talmente la figura divina che la sua risurrezione contiene l’antica disposizione a credere la rinascita del sole e della luna dall’equinozio e dal solstizio. Lazzaro no. Egli è morto di una morte comune, «già manda cattivo odore». Non ci siamo mai interessati del corpo di Gesù prima del terzo giorno: Lazzaro non è risorto nella divina gloria, è tornato uomo. Forse è stato immediatamente ucciso dai giudei perché non fosse testimone involontario del potere di Gesù. Innanzi a lui è più difficile e impegnativo rispondere alla domanda del Cristo: «Credi tu questo?».
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- 2 Aprile 2023
Domenica delle palme e passione del Signore
Is 50, 4-7
Sal 22
Fil 2, 6-11
Mt 26, 14-27,66
Ma la passione di Gesù è anche storia ebraica
Passione del nostro signore Gesù Cristo secondo Matteo. All’inizio della Settimana Santa celebriamo l’effimero trionfo del Messia di Israele, l’osanna della folla di Gerusalemme al «figlio di Davide».
Abituati a leggere il brano della passione nel luogo liturgico, dove tutto è scandito non nei modi della realtà ma in quelli della rappresentazione, abbiamo perso il senso drammatico della storia che Matteo narra. Per comprenderne il pathos umano, la drammaticità reale, occorre intendere la storia della passione di Gesù come una storia ebraica prima che come un evento cristiano.
Le palme e gli ulivi che, come i pueri hebraeorum, i ragazzi ebrei, i fedeli porteranno come astratti segni del sacro, sono invece il vertice del dramma di Gesù. Gesù è il Messia di Israele: egli si è vissuto così. Ha voluto con tutte le sue forze che il popolo lo riconoscesse come figlio di Davide, come Messia di Israele.
Egli si pone come un nuovo Mosè, un nuovo Davide, ne compie i gesti e i segni. Si applica le parole di Isaia, riprende testi di Geremia e dei Salmi: prende la Bibbia ebraica e la usa per illuminare la sua persona.
Un pregiudizio dell’esegesi, protestante prima e poi, subalternamente, cattolica, ha obbligato a pensare ai Vangeli come a delle riflessioni che la comunità cristiana faceva sui suoi problemi: il pregiudizio di scuola domina le accademie e le corporazioni, comprese quelle degli storici e degli esegeti.
Ciò significa perdere di vista il corpo a corpo di Gesù con il suo popolo perché lo riconosca come il Cristo, il Messia. Un Messia diverso da Davide, perché intendeva unire il popolo in una prassi sociale, in una relazione di mutuo amore, che avrebbe attratto a Israele le nazioni.
Non voleva rivoluzionare lo status politico, ma certo modificare i rapporti economici. La ricchezza gli appariva come acquisita a danno di altri e come una forza che impediva di sentire l’altro come fratello. Ma così anche il potere religioso e sacrale.
Il messianismo di Gesù intendeva rivoluzionare il quotidiano, non i vertici del potere. E lo voleva per il suo popolo, Israele: egli che vedeva nel centurione romano e nella donna fenicia la pienezza della fede, si considerava mandato solo alle pecore perdute della casa di Israele. Era qui il suo messianismo, cioè la sua dimensione politica, regale. Egli sapeva che, se Gerusalemme non avesse conosciuto il tempo messianico che in lui era giunto, sarebbe stata travolta: «Gerusalemme che uccidi i profeti».
Il dramma della passione è la tragedia del messianismo ebraico, è il cuore del dramma di Israele. Caifa, sommo sacerdote, vuole che il Messia sia ucciso, perché altrimenti sarebbero venuti i romani a disperdere il popolo e il luogo santo del tempio. In realtà, uccidendolo, il sommo sacerdote rese inevitabile la distruzione della città e la dispersione del popolo.
Con lucidità storica e spirituale, Gesù vede quello che accadrà. Messianici sono il Getsemani, l’agonia, il «passi da me questo calice», il sudore di sangue, il «Dio mio, perché mi hai abbandonato».
I cristiani leggono in questa storia ebraica più di quello che essa racconta come storia del Messia di Israele. Vi leggono la storia del Figlio di Dio, incarnato, morto e risorto. E tuttavia ciò potrebbe essere avvenuto in altro modo, senza questo radicale coinvolgimento storico. E questo dramma del Messia ebreo che fa della storia il luogo in cui si manifesta la fede. Altrimenti, perché non ricorrere al valore simbolico del mito, in cui tutti i paganesimi hanno espresso un significato religioso?
Domenica delle palme, domenica delle illusioni messianiche. Quel popolo che gridava osanna al Messia, mosso dai sacerdoti e dai farisei, avrebbe gridato di liberare Barabba e di crocifiggere Gesù.
Leggiamo questo Vangelo mentre gli eventi mostrano nel nostro Paese che il nome cristiano mal si lega al potere politico. Mafia, camorra, corruzione, ‘ndrangheta, nulla si sono risparmiati o impediti coloro che si sono presentati al nostro popolo con il nome cristiano, il nome messianico di Israele. E che nella domenica delle palme, in questa città e in altre, agiteranno palme e ulivi in un innocente gioco liturgico. Torna in terra cristiana l’illusione ingannevole dei pueri hebreorum.
Ma che cosa è il messianismo per i cristiani? Questa dovrebbe essere per loro la questione radicale, spirituale e politica assieme.
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Tempo di Pasqua
- 9 Aprile 2023
Domenica di Pasqua: Risurrezione del Signore
Gen 1,1-2,2
Sal 104
Gen 22, 1-18
Sal 16
Es 14, 15-15,1
Es 15
Is 54, 5-14
Sal 30
Is 55, 1-11
Is 12
Bar 3, 9-15.31-4,4
Sal 19
Ez 36, 16-28
Sal 42
Rm 6, 3-11
Sal 118
Mt 28, 1-10
At 10, 34a.37-43
Sal 118
Col 3, 1-4
Gv 20, 1-9
Gesù pasquale dei Vangeli adesso è diventato nostro modello interiore
Il Signore è risorto: «La morte è assorbita nella vittoria. Dove è, morte, il tuo pungiglione?», si chiederà l’evangelista per eccellenza della risurrezione, l’apostolo Paolo. I cristiani della prima generazione si domandavano perché i cristiani morissero, se il Signore aveva vinto per tutti la morte. E la risposta di Paolo ai fedeli di Tessalonica fu che anche i morti sarebbero risorti, quando la risurrezione avrebbe investito i cristiani ancora in vita, tra cui Paolo sperava di potersi ancora collocare.
Solo più tardi nel Nuovo Testamento appare la nozione di una vita eterna dell’anima senza il corpo, così come quello di un regno di Dio che vive all’interno di una storia dominata dal potere e dalla violenza, di cui Satana rimane il principe.
«Desidero essere sciolto (dal corpo) e essere con Cristo», scrive Paolo più tardi. La risurrezione vive dentro il tempo e la storia: il corpo risorto dei Cristo abita la carne mortale, di lui i cristiani si nutrono nell’eucaristia. Rimane così, nella luce della risurrezione, la «noche obscura», descritta da san Giovanni della Croce.
Il Gesù prepasquale dei Vangeli, che interessava poco le entusiaste comunità paoline, è divenuto il nostro modello, la nostra stessa immagine interiore. La figura di Gesù che i secoli cristiani conoscono non è quella del Risorto ma quella del Crocifisso. Rimaniamo così nel regime della fede. «Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno», dice Gesù risorto all’apostolo Tommaso, che ha pure invitato a mettere le dita nel costato.
La risurrezione di Cristo vuol dire così che Dio fiorisce nel nostro corpo e nella nostra anima, diviene il desiderio del nostro desiderio, il punto focale del nostro sguardo. Beati quelli che credono perché sono trasformati dalla «notte oscura» nel Figlio di Dio.
«Notte che mi hai guidato,
notte più compiacente dell’aurora,
O notte che hai legato
all’amato l’amata,
l’amata nell’amato trasformata!»
(san Giovanni della Croce, nella traduzione di A. Capocaccia).
Questa è la notte Pasquale cui siamo invitati. Non è importante che Dio sia l’oggetto del nostro amore. La notte ignora tutto, salvo una cosa, la potenza del desiderio e dell’amore che la pervade: Dio è l’amore puro, senza oggetto e con tutti gli oggetti.
Dio è l’amore di tutti coloro che amano; l’amore in cui si dimenticano.
«Mi lasciai, mi scordai
il viso reclinai sopra l’Amato.
Tutto cessò, posai,
ogni pensiero ormai
avendo in mezzo ai gigli abbandonato».
Oltre la croce, vi è la risurrezione, oltre la fede vi è l’amore, l’amore divino che si diffonde per ogni cuore umano. Se Satana domina ancora i regni della terra e vediamo il suo volto nell’odio per l’uomo, di cui la tragedia bosniaca e la viltà europea sono un terribile indissolubile sacramento, la vita del Risorto circola nella notte oscura in ogni cuore.
Mi impressiona talvolta il cadere della memoria cristiana nella generazione più giovane, nonostante tante offerte di istruzione nella fede. E come se alla fede essi fossero divenuti impermeabili, nonostante un crescente desiderio del divino che circola anche nelle canzoni. Ma l’amore non è legato.
Per questo la più bella figura della storia della risurrezione è la Maddalena, del cui amore ardente, così evidentemente totale, le Chiese si sono vergognate (come del Cantico dei cantici, che singolarmente la liturgia cattolica legge solo nella sua festa).
In questi tempi in cui l’amore corre, ma la fede stagna occorrerà meditare di più questa figura di puro amore, di bell’amore. Non è un pensiero tradizionale, ma nemmeno anomalo il riflettere che, nel Vangelo, Maria di Nazareth è la figura della pura fede, Maria Maddalena è la figura del puro amore. Della prima conosciamo tutto, e talvolta in modo indiscreto, della seconda troppo poco.
Se una è il volto dell’incarnazione e del compimento di Israele, la seconda è il volto della risurrezione e del compi-mento della Chiesa.
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- 16 Aprile 2023
Seconda domenica di Pasqua
At 2, 42-47
Sal 118
1 Pt 1, 3-9
Gv 20, 19-31
«Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»
La testimonianza di Tommaso
Questa domenica la liturgia legge la storia dell’incredulo Tommaso che, grazie all’incredulità, divenne il più importante testimone della risurrezione di Gesù.
Il centro del Vangelo non sta solo nell’elogio della fede, più importante dell’evidenza e della visione, ma proprio nel gesto che Gesù comanda a Tommaso di fare: quello di mettere il dito nelle piaghe. Si tratta di più che dell’invito a una constatazione fisica. Si tratta di mettere al centro della fede il corpo di Cristo.
Lo aveva già fatto in modo solenne Gesù nella cena eucaristica, in cui egli aveva modificato il rito della benedizione ebraica da lui assunto facendo del pane e del vino il segno del suo corpo e del suo sangue, che andava mangiato e bevuto in quelle forme. Ora mettere il dito al posto dei chiodi vuol dire accettare di comunicare con la fede al corpo del Cristo come a una sorgente di vita divina.
Tale è la fede: guardare l’uomo ed essere trasformato in Dio. Per questo essa è più importante della visione.
Nel momento in cui colui che crede tocca le piaghe del Cristo, umiliato e crocifisso come tanti altri prima e dopo di lui, e confessa che quella realtà umana così sgradevole è il «luogo» in cui il Padre dà la vita divina del Figlio al mondo, egli stesso si trasforma nel Figlio di Dio, diviene una sola carne e un solo Spirito con lui. Anche sul corpo del credente scende lo Spirito Santo, che riposa sul corpo di Cristo.
La storia di Tommaso non è un racconto di verifica e di constatazione come quello delle stimmate di padre Pio: Tommaso non è il notaio della risurrezione. La sua storia gli ha valso una gloria singolare, e forse per essa è chiamato Didimo, gemello, perché associato alla gloria del Cristo.
Nei Vangeli apocrifi, lavorati dall’eresia dello gnosticismo, il più importante (e forse quello che reca i detti non evangelici di Gesù più sicuri e significanti), porta il suo nome.
Tommaso è la figura del credente che passa attraverso alla passione del Cristo e solo così vede la «gloria dell’Unigenito del Padre». Nel toccare e appropriarsi le piaghe, penetrandole, penetrando il corpo divino nella sofferenza che le piaghe comunicano, sorge la visione di gloria.
Per un’unica volta nei Vangeli, Gesù è chiamato Signore e Dio, viene identificato con il Dio biblico. Il Dio trascendente, che non si può vedere senza morire, il Dio del Sinai, è ora questo corpo delle cinque piaghe, in cui Tommaso può mettere il dito.
E ben più che vedere, cosa che era già accaduta ai santi dell’Antico Testamento, ma è essere trasformato in ciò che si tocca e al cui livello con la fede che innalza si conforma.
L’annuncio riassuntivo del cristianesimo è fatto, sin dal secondo secolo, con una frase brevissima: «Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio».
È questa frase oggi comprensibile? È questo Vangelo giovanneo misurabile nel suo significato di dottrina e di messaggio, di cui l’evento narrato è sempre solo un segno e un simbolo?
Chi passa per il profondo della vita umana, le piaghe del Cristo, le piaghe degli uomini, entra nel mistero divino, conosce «il suo Signore e il suo Dio», si trasforma nel suo profondo, nel suo amore.
Ma oggi è veramente dato e detto, mediante la parola della predicazione, a tutti coloro che lo desiderano, il Dio che sorge nell’io liberato dal male grazie alla parola della fede?
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- 23 Aprile 2023
Terza domenica di Pasqua
Anche noi possiamo sentire il mondo della risurrezione
At 2, 14a.22-33
Sal 16
1 Pt 1, 17-21
Lc 24, 13-35
Anche noi possiamo sentire il mondo della risurrezione
Ancora in questa domenica il Vangelo ci parla della risurrezione. La risurrezione è l’annuncio centrale del cristianesimo ed è anche la parola più dura a intendersi, perché indica una realtà fisica diversa da quella che ci circonda, non soggetta alle sue leggi o almeno non al medesimo modo. Eppure questo mondo risorto, libero dai condizionamenti, penetra nel nostro, rimanendo terrestre. Si configura come una terra in cui le possibilità del pensiero e dell’agire umano sono le ultime dimensioni della realtà stessa.
Questo è un universo di fantasia, ma a cui il secolo XX ci ha avvicinato molto più di quel che non lo fossero gli uomini del tempo di Gesù. In questo orizzonte non c’è morte. E gli uomini viventi nell’unità divina ritornano presenti nel cuore stesso della materia terrestre di cui le cose del nostro mondo son fatte.
Dopo la fine delle utopie politiche, si può credere a questo «sogno» di trasposizione del cosmo, dell’uomo e del divino in una unità visibile, un divino trasparente nella carne dell’uomo e nella materia del mondo? In realtà, non ci è rimasta altra idea di futuro assoluto: dobbiamo rinunziarvi? Ci fu uno scrittore, scienziato e religioso, Teilhard de Chardin, che, in questo secolo, ha pensato la risurrezione come possibilità per l’universo che noi conosciamo. I suoi pensieri ci sembrano oggi più attuali.
E il Vangelo che la liturgia oggi presenta è un Vangelo in cui il mondo nostro e il mondo della risurrezione comunicano: è il Vangelo dell’incontro di Gesù con i discepoli a Emmaus. I discepoli sono scorati, camminano per la strada, ritornano al villaggio da dove erano partiti in attesa di vedere il Messia vincitore. Hanno invece visto il Cristo crocifisso. E Gesù compare risorto vicino a loro, non è riconosciuto. Egli si manifesta quando vuole manifestarsi: è questo il modo in cui il mondo della risurrezione vive nel nostro mondo. Tuttavia, pur nel segreto e nel nascondimento, il mondo della risurrezione penetra il nostro, si fa sentire nel silenzioso conforto che vince lo scoramento, che dà gioia quando tutto sembra perduto.
E a un certo momento Gesù si fa riconoscere «nella frazione del pane»: il gesto dell’ultima cena, cui i due discepoli di Emmaus pare non fossero presenti. Eppure in quel gesto Gesù si fa riconoscere. Quel pane è il suo corpo risorto. Conosciamo questa presenza dalla fede, ma la fede, nella sua ultima realtà, è il sentimento del «sovrappiù» che è nel cuore della materia, il sentimento della vita profonda che è nelle cose. Nella sua ultima realtà, la fede è il veicolo tra il mondo del nostro spazio e del nostro tempo e il mondo divino entro cui sta la potenza della risurrezione.
Noi siamo come i discepoli di Emmaus: camminiamo scorati lungo la strada del mondo. Ma vicino a noi c’è un viandante che non conosciamo: come imparare a sentirne la presenza, se non credendola possibile, desiderandola? I discepoli di Emmaus erano in condizioni peggiori delle nostre. La loro speranza era stata crocifissa. Eppure a un certo momento ricevettero occhi per vedere. La nostalgia era la loro forma di desiderio: così è anche per noi, che abbiamo la fede nella memoria storica. Soli e scorati nelle vie del ritorno, possiamo sentire vivido all’interno di noi il mondo della risurrezione, nascosto nella divinità creatrice come ultima forma e supremo senso della realtà creata.
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- 30 Aprile 2023
Quarta domenica di Pasqua
At 2, 14a.36-41
Sal 23
1 Pt 2, 20b-25
Gv 10, 1-10
E nel Vangelo Dio si fa uomo
Nel Vangelo di Giovanni il tema del buon Pastore risponde all’intenzione fondamentale dell’evangelista: dimostrare che Gesù è il Dio di Israele. Questo è il carattere singolare di questo Vangelo, unico rispetto agli altri: condurre alla identificazione di un uomo con Dio. Da un punto di vista storico, l’impresa era certamente impossibile: l’alterità di Dio rispetto all’uomo era un dato comune, in forma diversa, alla cultura ebraica come alla cultura greca.
Giovanni ci mostra un Gesù che non conosceremmo se avessimo solo gli altri Vangeli, anche se Gesù ha in essi un’autorità più che umana. Ma i Vangeli sinottici non ci di-cono mai con tale chiarezza la divinità del Cristo che fa il cristianesimo e il Dio del cristianesimo.
Per i cristiani Dio è Gesù Cristo, ed è questa la differenza radicale del cristianesimo dai monoteismi ebraico e islamico. Tanto più che è proprio la divinità ciò che Gesù comunica agli uomini: «Diede loro la potenza di divenire figli di Dio».
Quando il salmista canta «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla», ci dà uno dei più bei testi dell’Antico Testamento sulla tenerezza divina. Il salmo descrive la dolce e forte mano di Dio che veglia sulla singola pecorella, la dedizione con cui si prende cura di tutte le sue necessità. Il Vangelo ci dà invece un inno di battaglia.
Chi parla ha l’autorità di Dio ma si situa dentro, non sopra il conflitto della storia. Egli vede innanzi a sé i lupi e sa che in quel caso, se li affronta, il pastore rischia la vita. Egli è l’unico, come il Dio di Israele: ma ha il coraggio e la debolezza dell’uomo. Anche la tenerezza del Dio del salmista ritorna nella voce dell’evangelista: le pecore conoscono la voce del pastore.
La voce del Signore risuona nei cuori umani. Come imparare a ascoltarla? Essa non viene dal di fuori di noi, ma risuona in noi dal nostro interno: è la nostra stessa voce, che ci parla dalla sua dimensione eterna, dal Regno dove Dio è tutto in tutti. Quando pensiamo alla preghiera, ci sovviene immediatamente la nostra domanda a Dio. Ma preghiera è anche silenzio, ascolto di Dio, lettura di pagine che ci avvicinano a lui.
Preghiera è anche ascolto di noi, ascolto della vita che pulsa in noi stessi, che emerge nei nostri desideri, nelle nostre paure. Gesù parla nel cuore: solo se abitiamo il nostro cuore, se amiamo noi stessi, se a noi stessi facciamo attenzione, possiamo ascoltare la voce del Risorto, che fa parlare nel tempo il nostro Io che Dio ama e conosce nell’eternità.
Gesù parla in noi se noi non sfuggiamo a noi nelle molte cose in cui si disperde la vita nel tempo. Se viviamo dentro di noi siamo liberi.
Questo Vangelo è spesso utilizzato per ricordare la dimensione pastorale dei vescovi e dei preti. Ma essi possono soltanto legittimamente indurre a ascoltare «l’unico Pasto-re delle anime», il Cristo che unisce il nostro essere in Dio al nostro esistere nel tempo.
Sarebbe stato meglio se nella Chiesa si fosse rispettata la concentrazione cristica del Nuovo Testamento, chiamando solo il Cristo sacerdote, signore, pastore, maestro, come egli stesso ha formalmente richiesto. Ma, mentre pur nell’angoscia, l’umanità cresce in vita interiore nelle singole persone, tutto ciò che si pone come potere, religioso o politico, sul cuore degli uomini, passa.
Il cardinale Newman aveva uno stemma che sempre ricordo: «Il Cuore parla al cuore». Quel motto indica proprio quello che questo Vangelo ci dice: solo il Cristo che parla nel nostro cuore parla dalla vita eterna. E la parola che egli dice rivela a noi stessi ciò che noi siamo.
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 7 Maggio 2023
Quinta domenica di Pasqua
At 6, 1-7
Sal 33
1 Pt 2, 4-9
Gv 14, 1-12
Gesù parla di sé per far capire Dio
L’evangelista ha concentrato nei dialoghi dell’ultima cena tutto lo sforzo fatto da Gesù per far capire ai discepoli che Dio in lui si era fatto uomo. È un dialogo strano in cui Gesù non parla che di sé stesso. L’affermazione centrale di Gesù usa per sé il qualificativo divino: Io sono.
«Io sono» è nelle parole con cui dal roveto ardente Dio si rivelò a Mosè. E torna molte volte, specie nei Salmi, questo «Io sono» che è l’autodefinizione di Dio. Vuol dire due cose: la prima, sono una persona; la seconda, in me riposa l’essere. Così Dio si è rivelato a Israele. Ed è a questa rivelazione che Gesù si rifà: per dire che egli è quel Dio.
Nessuna impresa sembrerebbe più impossibile. Spiegare a degli ebrei che un uomo, che stava per essere consegnato al potere giudaico e a quello romano, era il Dio del Sinai, sfida il senso del possibile. «Io sono la via, la verità e la vita».
Si può comprendere il termine «via», che era applicabile a un uomo: ma dire «Io sono la verità» indicava la veracità divina, la stabilità, la forza e la sicurezza della parola di Dio. E la vita era ciò che è proprio di Dio.
E poi le parole più forti: «Se conoscete me, conoscete anche il Padre». «Il Padre» è il nome con cui Gesù chiama il Dio di Israele. Lo intende in un rapporto proprio, diverso da quello degli altri uomini. Lo chiama con un termine confidenziale «Abba», che indica il lato dolce e confidenziale della paternità.
L’apostolo chiede: «Mostraci il Padre». Era una richiesta ardita. Nella Bibbia ebraica era scritto che chi vede Dio muore. Ora Filippo chiede di vedere la gloria, lo splendore e la potenza di Dio. Dolce e terribile è la risposta di Gesù: «Chi vede me vede il Padre». Terribile perché deludente: a chi si aspettava una teofania solenne come quella di Isaia, o anche un dialogo tenero e autorevole come quello con Geremia, Gesù rispondeva che lui era la manifestazione del Dio della gloria, lui la voce.
Filippo e Giacomo avevano spinto il loro desiderio, in quel momento solenne, per chiedere, sulle soglie della crocifissione, l’evidenza della divinità. Gesù rispondeva mostrando la sua umanità. Eppure, un’altra volta, sul Tabor, a tre apostoli, che ora rimangono silenziosi, aveva fatto ascoltare la voce del Padre.
Ora non più, il cenacolo è il luogo delle verità assolute. Ma non basta. Gesù indicava come luogo del Padre non solo la sua umanità, ma la loro. Egli saliva al Padre, ed essi rimanevano sulla terra come presenze del Padre: avrebbero fatto, nella fede, opere maggiori di lui. Accettando di ricevere il Padre, sarebbero diventati figli come Gesù è figlio.
Dio non si nascondeva più sul monte e nel tempio ma, divenuto uomo, viveva tra gli uomini, assumeva la loro vita ricevendo essi nella sua. Diventare Dio: questa è infine l’essenza del cristianesimo. Lo dice Gesù, nel finale del discorso di Giovanni per l’ultima cena, che è il vertice del Vangelo. Per noi questa parola sembra nuova. Forse anche perché Dio è per noi un nome meno significativo ed evocante che per gli ebrei del tempo di Gesù. E poi sembra significare non l’infinito amore ma solo la infinita potenza. Ma Gesù sapeva che Dio non parla nella potenza: lo sapeva tanto da accettare, per questo, la morte di croce.
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 14 Maggio 2023
Sesta domenica di Pasqua
At 8, 5-8.14-17
Sal 66
1 Pt 3, 15-18
Gv 14, 15-21
È in noi stessi l’oggetto della nostra fede
Il discorso dell’ultima cena nel Vangelo secondo Giovanni ritma questo tempo Pasquale e ci dice le parole più difficili a intendere del cristianesimo. In questo testo Gesù afferma che «lo Spirito Santo dimora presso di voi e sarà in voi».
Lo Spirito Santo è il Dio che dà vita al mondo, è il Dio che sta sulla terra, è il Dio che abita nell’uomo. Ogni uomo riceve, nel modo che lo Spirito conosce, lo Spirito in dono. È il Dio che sta in noi non come un «tu», ma come un «io». È il Dio che vive nel nostro desiderare, amare, soffrire, compatire, sperare, temere, vivere e morire. È il Dio che si nasconde nelle pieghe della creazione e della storia umana, che dà forma all’energia e ispirazione alla libertà umana. È il Dio che vive nella tenerezza animale, nella potenza vegetale, nella asperità della roccia. Il Dio immanente, da cui non possiamo separarci mai perché Dio non perde nulla di ciò che ha creato: il Dio che è oltre la giustizia e l’ingiustizia, la vittima e il carnefice, perché è l’estremo dell’amore divino.
Ogni fatto è un suo effetto anche se la creatura animata, inanimata, libera cammina per una strada che scontra quelle delle altre creature.
Lo Spirito Santo è l’unità di un universo percorso da una dinamica senza misura, in cui ogni realtà urta con ciò che le è contrario. Questo Dio è l’ospite del nostro cuore, è colui che è «più intimo del nostro io», il Dio che custodisce in sé il nostro volto oltre il tempo, la nostra eternità. «Voi lo conoscete» dice Gesù.
Oggi si parla di più nella Chiesa dello Spirito Santo: se ne parlava prima così poco, perché egli è il Dio della libertà: «dove c’è lo Spirito del Signore, ivi è la libertà»: e ogni istituzione preferisce sempre l’obbedienza alla libertà.
Una religiosa, alla fine del secolo scorso, chiese al papa Leone XIII, di parlare dello Spirito Santo, perché in lei lo Spirito Santo lo chiedeva. Il Papa obbedì alla voce dello Spirito in Elena Guerra e fece una enciclica sullo Spirito Santo.
Dopo il concilio, non se ne parla di più. Sia nelle Chiese protestanti che nella Chiesa cattolica è sorto un movimento che ricerca i doni che lo Spirito dona dalle origini alla Chiesa: dal parlare in lingue sconosciute sotto la presenza invadente dello Spirito sino al più alto carisma, il carisma di profezia.
«Egli dimora presso di voi», ci dice Gesù nel brano di Giovanni che leggiamo in questa domenica, ormai vicina alla Pentecoste. Nello Spirito possiamo conoscere Gesù, in un modo pieno e interiore: «Io lo amerò e mi accosterò a lui».
Il cristiano è chiamato a questa esperienza della vita della Trinità, perché gli è stato donato lo Spirito senza misura e la Trinità divina è la sua patria.
Pregare vuol dire accogliere, nello Spirito che vive nel nostro io, il Cristo che ci fa, nella vita, nella società, nella storia, «altri cristi», imitatori di lui in tempi diversi dai suoi. Ciò può accadere anche nella notte della fede.
Credere vuol dire sapere che la Trinità abita in noi anche se siamo invasi dal nostro pensare e agire quotidiano. Credere vuol dire sapere che in noi pulsa la vita che crea e custodisce l’universo. Forse per questo è difficile credere: perché è in noi stessi l’oggetto della nostra fede.
È più facile adorare un Dio lontano e assoluto, è più facile la religione musulmana. Ma credere nel Dio che dimora in noi e ci trasforma in lui è il proprio della fede cristiana.
Lo Spirito è la misura che permette al cristiano di passare persino oltre il naturale sentimento religioso di dipendenza proprio del sacro. Ma, come dice Gesù, «ogni cosa è possibile a chi crede».
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie.
- 21 Maggio 2023
Settima domenica di Pasqua: Ascensione del Signore
Nell’attesa del ritorno la grande prova della fede
At 1, 1-11
Sal 47
Ef 1, 17-23
Mt 28, 16-20
Nell’attesa del ritorno la grande prova della fede
Festa dell’ascensione del Signore: questa volta il testo importante non è il Vangelo, ma la prima lettura, quella degli Atti degli apostoli. Gli Atti sono la prima storia della Chiesa: la Chiesa qui è protagonista. E questo è il dramma. Lo è per gli apostoli stessi, il fondamento della Chiesa. Per-ché essi non pensavano che la storia della risurrezione finisse così. Essi non si aspettavano la risurrezione, ma meno che mai si aspettavano l’ascensione.
Dopo la risurrezione, per loro doveva cominciare la manifestazione della potenza del Messia e del suo popolo, Israele. Vero, Israele lo aveva crocifisso: ma poteva il re d’Israele non portare con sé il suo popolo nel suo trionfo? Perché trionfo ormai doveva essere. A che sarebbe servito risorgere dalla morte senza dominare la terra e la vita? E corre sulla loro bocca la domanda: Signore, è adesso che fondi il regno di Israele? Infatti, che senso ha il Re Messia, vincitore della morte, se questa non è l’ora del giudizio delle nazioni, della cacciata dei romani, del tempio di Gerusalemme divenuto il tempio delle genti, di Israele riconosciuto popolo sacerdote di tutti i popoli?
No, risponde Gesù, il protagonista, qui sulla terra sarete voi: voi andrete a annunciare la mia risurrezione a tutte le genti.
Il libro degli Atti non racconta la delusione degli apostoli: Luca è uno storico gentile, nasconde i sentimenti quando essi non fanno storia. E poi lui non c’era e Paolo, il suo maestro, nemmeno.
Paolo svilupperà un pensiero in cui la croce di Gesù ha il suo senso in sé stessa: egli vi leggerà, conformemente alle parole di Gesù sull’eucaristia che egli riferisce, il sacrificio che libera gli uomini dall’ira divina e conferisce loro lo Spirito Santo. E lo Spirito Santo, negli uomini, il regno di Dio. Ed è quello che Gesù dice agli apostoli.
Alla domanda: a quando il regno d’Israele? Gesù risponde: riceverete lo Spirito Santo. Il regno di Dio è Dio nel cuore dell’uomo, non la potenza di Dio nelle mani dell’uomo. E allora avviene l’ascensione.
Roman Brandstätter, uno scrittore polacco che Giovanni Paolo II ha riconosciuto come un «testimone della speranza biblica e divina», ha scritto uno straordinario romanzo su Gesù, ora accessibile in italiano.
La qualità poetica, il senso simbolico, la forza mistica gli fanno trovare parole efficaci per descrivere l’indescrivibile. Ecco il suo racconto dell’ascensione:
«Gesù si stava lentamente allontanando da essi, si alzava in alto, sempre più in alto, e questo allontanamento dal posto era contemporaneamente un rimanere sul posto, l’allontanamento era il ritorno, e anche se era lontano, era sempre più vicino, e quanto più era invisibile, tanto più era carnale e presente, e alla fine sentirono che potevano toccare la sua mano, i suoi piedi, le sue ferite, senza paura di una paralisi mortale».
La Chiesa era nata: come esperienza del Cristo crocifisso e risorto, lontano e presente. Da allora i cristiani hanno aspettato, con fervore diverso, in tempi diversi, il ritorno del Signore: solo lo Spirito di Dio poteva reggere una attesa così improbabile per la ragione. L’attesa stessa è la prova che la fede può dar di sé stessa.
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- 28 Maggio 2023
Pentecoste
At 2, 1-11
Sal 104
1 Cor 12, 3b-7.12-13
Gv 20, 19-23
Lo Spirito fa l’uomo immagine di Cristo
Pentecoste chiude il tempo pasquale. L’opera di Gesù Cristo è compiuta: l’uomo riceve lo Spirito di Dio, diviene una sola cosa con il Padre e il Figlio, come ha chiesto Gesù nel discorso dell’ultima cena in Giovanni. Non è cambiato il mondo per l’avvento glorioso del Messia, la sua risurrezione è stata poco più che clandestina. I romani, i sacerdoti, i farisei hanno storicamente vinto.
Come si poteva predicare agli ebrei un Messia crocifisso? Come si poteva annunciare ai greci, ai romani, ai siriaci, ovunque nell’ecumene, un risorto apparso a così pochi, e soprattutto un Dio crocifisso e risorto, un Dio umanamente sconfitto?
Un Dio si è sempre manifestato con l’attributo della potenza: come invocare un Dio sconfitto sulla terra dalla propria debolezza? Che aiuto può dare la preghiera a chi si è privato così visibilmente della sua potenza, anzi, nel caso ebraico, della sua onnipotenza? Salverà gli altri colui che non ha salvato sé stesso?
La domanda se la pone Dante quando, nel suo esame sulla fede, che ha per autore san Pietro, questi gliene chiede paradossalmente le ragioni, in pieno Paradiso. E Dante risponde:
«Se il mondo si rivolse al cristianesmo
diss’io, sanza miracoli, quest’uno
è tal che li altri non sono il centesmo».
La Chiesa è divenuta mondo e ne ha assunto la figura, il suo Dio è tornato a essere l’Onnipotente, come lo chiama il credo niceno. E tuttavia al centro di ogni sua incarnazione storica, è sorta sempre, in forme diverse, una contestazione che richiamava i cristiani al Dio crocifisso, non omogeneo ai poteri del mondo. Il volto del Cristo è apparso sempre altro da tutte le forme di Chiese stabilite, di ogni unità tra Chiesa e potere politico. Questa differenza tra Dio e i poteri mondani, politici o economici, questo sovrappiù del Cristo rispetto a tutte le forme di tutte le sue Chiese, è l’opera dello Spirito Santo che agisce nel segreto dei cuori e unisce in lui ciò che nell’apparenza sembra diviso. Lo Spirito Santo è effuso su tutta la terra ed è presente nel cuore di ogni persona.
I cristiani hanno il dono di conoscere di essere abitati dallo Spirito Santo e di appartenere così, già nel tempo, alla vita eterna. Lo Spirito Santo fa della persona che lo accoglie, conoscendola, un’immagine del Cristo vivente nel nostro tempo.
Ogni evento che accade, gioioso o doloroso, è un mezzo di cui lo Spirito si serve per riprodurre in ciascuno di noi l’immagine di Gesù Cristo. Ciò richiede il consenso della nostra volontà, ma non è essa a operare in noi il cambiamento che lo Spirito Santo porta con sé: è Dio che nel suo Spirito ci fa figli nel Figlio.
Con la domenica dopo Pentecoste torna il tempo ordinario della Chiesa, che è simbolo del tempo che intercorre tra la Pentecoste di Palestina e il giorno del ritorno del Signore. In quel giorno il tempo apparirà rifluente nell’eterno da cui sgorga e tutto ciò che è nascosto in Dio e il tempo ci vela, apparirà.
Questo lungo cammino è affidato allo Spirito Santo, che compie in sé il destino temporale di ogni uomo, di ogni realtà, e lo trasmette intatto alla realtà divina in cui tutto ciò che vive di tempo nel tempo vive in eterno dell’Eterno.
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- 4 Giugno 2023
Prima domenica dopo Pentecoste
Santissima Trinità
Le tre esistenze di un Dio unico
Es 34, 4b-6.8-9
Dn 3
2 Cor 13, 11-13
Gv 3, 16-18
Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio
Le tre esistenze di un Dio unico
Domenica della Trinità, il nome del Dio cristiano. Non esiste questa parola nel Nuovo Testamento, dove è detta la divinità del Cristo e in lui del Verbo o del Figlio: ed è indicata, ma non esplicitata, la divinità dello Spirito Santo. Ci vollero quattro secoli di cristianesimo perché questa parola divenisse il nome proprio del Dio cristiano: Padre, Figlio, Spirito Santo. Quale è la differenza tra la Trinità e il Dio unico, adorato dalla religione di Israele e dell’Islam, in forme tanto diverse l’una dall’altra? Il Dio cristiano può dirsi unico, nello stesso senso di uno, ma è un Dio che ha tre diversi modi di esistenza, ciascuno irriducibile all’altro, ciascuno distinto dall’altro dalla stessa relazione che li unisce nella comune divina realtà.
Quale è il senso di questo modo di definire Dio? È quello che rende possibile associare alla divinità l’umanità di ciascuna persona umana. Il cristiano sa dal suo battesimo di essere divenuto figlio nel Figlio, generato dall’unico Padre, cospirante l’unico Spirito. Come dice la seconda lettera di Pietro, siamo divenuti «partecipi della natura divina».
Nel suo bellissimo apologetico Il trionfo della Croce, Gerolamo Savonarola scrive che con la rivelazione cristiana cominciò a crescere la persona umana. E «persona» è un nome che fa parte del lessico cattolico, è usata con parsimonia dal pensiero laico, che le preferisce «individuo». Ma, nel senso cattolico, la persona umana indica, in riferimento alla persona divina, la relazione con gli altri: la persona è una relazione, vive in comunione. Come nella Trinità, la persona di uno si definisce con la sua relazione a quella degli altri, il proprio stesso status personale, così nel senso cattolico la persona di ciascuno è definita dalla relazione che ha con tutti. L’«io», il protagonista dell’esistenza umana, è sempre intenzionalmente e potenzialmente un «noi». E per questo «libertà» è una parola cristiana e indica la presenza dello Spirito Santo in ogni battezzato, che solo con l’attenzione può godere di questa divina presenza.
La Trinità consente di comprendere l’affermazione di Giovanni «l’amore è Dio». L’unità delle Tre Persone è il loro amore. Agostino, in un felice testo, ricordando come lo Spirito Santo esprima nella sua persona l’amore essenziale delle divine Persone, disse che, donandoci lo Spirito Santo, il Padre e il Figlio vollero avere in comune con noi uomini lo stesso amore che li unisce.
Il testo del Vangelo non fa cenno diretto alle divine Persone (esse appaiono unite solo nella finale del Vangelo di Matteo, che definisce con i loro nomi la formula del battesimo). Ma nel discorso di Gesù a Nicodemo del Vangelo di Giovanni, è indicato l’amore divino: «Dio ha tanto amato il mondo da dargli il suo Figlio unigenito». Indica in altra formula la identificazione tra Dio e Amore, che è nella prima lettera giovannea.
Ho visto che è difficile ottenere la giusta risposta sulla Trinità da un giovane che frequenta catechismo e riceve a scuola l’istruzione religiosa. È più facile ottenerla da persone anziane assai meno istruite. Qualche volta si ha l’impressione che una eccessiva concentrazione sull’umanità di Gesù abbia fatto dimenticare che essa ha per fine quello che Barth ha chiamato «l’umanità di Dio».
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- 11 giugno 2023
Seconda domenica dopo Pentecoste:
Dt 8, 2-3.14b-16a –
Sal 147
1 Cor 10,16-17 –
Gv 6, 51-58
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo
Corpo e Sangue di Cristo. La festa eucaristica da troppi «tradita»
Nel tempo dopo Pentecoste la liturgia contempla la figura del Cristo risorto nella sua gloria: Figlio del Padre nella Trinità, la cui festa è stata celebrata la scorsa domenica, cibo e bevanda dell’uomo nella festa di oggi, il Corpus Domini, la festa dell’Eucaristia. Questa festa è caratteristica della Chiesa occidentale e ha dato luogo alla più bella delle sue devozioni, quella dell’adorazione di Gesù Cristo presente nelle apparenze del pane e del vino su cui sono state recitate le sue parole nell’ultima cena: «Questo è il mio corpo», «questo è il mio sangue». Il testo evangelico che leggiamo è tratto dal capitolo sesto di Giovanni: ed è qui che Gesù pronuncia le parole che indicano il suo corpo come cibo e il suo sangue come bevanda. «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue non vedrà la morte in eterno. Chi mangia di me vivrà di me».
Ancora oggi queste parole non hanno perso il sapore dello scandalo, anche se tutti sanno che la comunione è una piccola ostia bianca: nulla di così sanguinolento e carnale come queste parole di Gesù. Del resto ormai quanti sono i credenti che pensano veramente di mangiare il Figlio di Dio, di ricevere la vita eterna, di essere trasformati in lui grazie a quel gesto? Quante volte proprio il modo in cui i credenti ricevono l’eucaristia ricorda quelle parole di Gesù agli apostoli: ma voi pensate che, tornando, il Figlio dell’Uomo troverà ancora fede sulla terra?
La festa del Corpo del Signore venne istituita dopo il miracolo di Bolsena, a cui dobbiamo il duomo di Orvieto: un miracolo del sangue scorrente dalla piccola ostia bianca per un sacerdote che dubitava della presenza reale del Cristo sotto le apparenze del pane e del vino. Per convincere i cristiani di oggi non basterebbe che tutte le ostie della terra sanguinassero. Ci si domanda il perché sia accaduta questa menomazione della fede nella presenza reale del Cristo. Forse è dovuto alla riforma conciliare che ha distrutto le forme di preghiera popolare, come l’adorazione all’Eucaristia, collegata a questa festa. Ma forse è accaduto perché non si è spiegato che la presenza di Gesù nel pane e nel vino ha per fine di trasformare noi in lui. «Chi mangia di me vivrà di me».
L’Eucaristia è rimasta una devozione, non è stata vista come una trasformazione in Cristo di chi lo riceve eucaristicamente. Il corpo di Cristo eucaristico fa il corpo mistico del Cristo che è ciascun cristiano e la Chiesa tutta. Ma la Chiesa tutta attraverso ciascun cristiano.
Lentamente il mistero centrale della nostra fede, la trasformazione dell’uomo in Dio in conseguenza della trasformazione di Dio nell’uomo, esce dall’attenzione, dall’intelligenza: e lentamente dal culto. Non abbiamo più né il gregoriano, né le chitarre, né l’altare né la mensa. Non ascoltiamo una lettura del mistero divino che diviene la nostra vita eterna, quella che non vedrà mai la morte.
Partecipiamo al banchetto in cui ci è offerta in cibo l’eternità come a una svogliata cerimonia pubblica da gente per bene. Forse l’ultima categoria di persone, cui si è rivolto Gesù, che pur si rivolgeva a tutti. Forse assistiamo al lento deperire del cristianesimo, nella sua prima terra di adozione, l’Europa, senza nemmeno sapere per quale ragione ciò accade. La festa del Corpo e del Sangue del Signore ci ricorda i limiti della nostra fede.
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18 Giugno 2023
Undicesima domenica del tempo ordinario
Es 19, 2-6a – Sal 100 – Rm 5, 6-11 – Mt 9,36-10,8
Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date
Le credenziali della Chiesa
Il Vangelo che leggiamo oggi indica il momento in cui Gesù fonda il suo nuovo Israele, quello che diverrà poi la Chiesa. Lo fa perché l’Israele che ha innanzi è costituito da pecore «stanche e sfinite» perché «senza pastore». Ma egli, prima di passare a un atto di fondazione, afferma: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe». Chiede l’aiuto del Padre, non fa riferimento a un atto suo. Poi immediatamente lo compie. Chiama a sé dodici discepoli e dà loro «il potere di scacciare gli spiriti immondi e di guarire ogni sorta di malattia e di infermità». Dopo una invocazione al Padre, a cui ha invitato i dodici discepoli ad associarsi, egli decide il passo della fondazione del nuovo Israele.
Gli apostoli sono dodici come le dodici tribù e l’evangelista ne indica i nomi. La sua azione porta in sé l’esaudimento della preghiera rivolta al Padre. L’episodio mostra la collaborazione tra il Padre e il Figlio nell’origine della Chiesa. E lo Spirito Santo è presente nell’atto di Gesù, che dà il suo potere spirituale ai dodici.
Nella lettura cristiana di questo testo evangelico, è possibile sentire l’aura del mistero trinitario. Ma all’inizio la missione è limitata a Israele: «Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei samaritani». Gesù assegna in questo testo ai dodici dei limiti che non ha assegnato a sé stesso. Sembra che egli desideri che la sua comunità, il nuovo Israele, sia la trasfigurazione dell’Israele esistente.
Appare dal testo che Gesù intende fondare una comunità, un nuovo inizio. Il Regno che egli predica è un regno interiore, è l’immediatezza di Dio presente nel cuore umano. Ma è anche un popolo, un nuovo popolo che continua l’antico. Gesù ha voluto che non solo le persone, ma anche le relazioni che le esprimono si manifestassero in una forma sociale e storica.
Egli ha già compreso che non saranno le istituzioni di Israele, i custodi del tempio e quelli della Scrittura, ad accettare il Regno. Ma pensa che il popolo della terra, trascurato dai sacerdoti e dagli scribi, possa riconoscere nei segni di misericordiosa potenza («guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni») il segno di Dio.
Questo testo è presente nella memoria della Chiesa nascente: gli Atti degli apostoli descrivono la missione cristiana come accompagnata da questi segni. La Chiesa nasce qui da un preciso gesto di Gesù che fa dei dodici il fondamento della nuova comunione, del nuovo popolo di Dio. I dodici sono il legame tra Gesù e la sua comunità.
La fede cattolica si fonda su questo nesso: la successione apostolica, il criterio con cui, già nei primi secoli cristiani, si stabilirà l’autenticità della Chiesa, il suo legame con Gesù. Il legame sono questi dodici uomini, di cui sappiamo poco, salvo che di Pietro, oltre il testo evangelico. Ma la Chiesa sa che su di essi si fonda la sua connessione con Cristo: e ha letto i ministeri ordinati (l’episcopato, il presbiterato) come connessione nel tempo a questo gesto iniziale di Gesù. Gli apostoli non sono Gesù, il fascino universale di lui non discende su di loro. Eppure solo attraverso altri da lui possiamo entrare in contatto con lui.
Se una potenza di discernimento non avesse operato nella comunità di Gesù, nella Chiesa, noi non avremmo i Vangeli, la memoria del Gesù prepasquale, la figura che esprime in sé la pienezza del desiderio umano appunto perché vive nel tempo divino.
Questi Vangeli, queste memorie di Gesù, sono l’opera prima della sua comunità. È essa che lo ha impresso nella memoria, dove ogni uomo può trovarlo. I Vangeli sono le credenziali della Chiesa, che vive in sé stessa il segno del suo fondatore, attraverso le vicende del tempo e dello spazio.
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25 Giugno 2023
Dodicesima domenica del tempo ordinario
Ger 20, 10-13 – Sal 69 – Rm 5, 12-15 – Mt 10, 26-33
Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio
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Il coraggio dei disarmati, unico potere del Regno
Questo è il Vangelo del coraggio dei disarmati, il coraggio cristiano per eccellenza. Gesù manda i discepoli ad annunziare il regno di Dio che viene: ma essi stessi sono l’unica potenza di questo Regno. Sono noti gli atti di violenza dei cristiani, quelli commessi, per esempio, nella conquista delle Americhe, nella tratta degli schiavi o dell’Inquisizione. Questi segni di violenza mostrano come l’Anticristo si nasconda nel corpo di Cristo. «Da noi sono usciti, ma non erano dei nostri», dice Giovanni di coloro che chiama gli anticristi. E, non a caso, la più perfetta figura di Anticristo, che agisce nel nome del Cristo, è data dalla «Leggenda del Grande Inquisitore» di Dostoevskij.
La violenza non è mai insegnata dal Vangelo, che ammette la forza dello stato, ma non quella dei suoi discepoli, a cui egli ha dato l’esempio del messianismo più disarmato. E ciò quando il Messia era atteso come la potenza di Dio per liberare e riunire Israele. Al posto del Regno, viene la fede nel Regno: anzi il Regno consiste proprio nella fede dei disarmati. A essi è chiesto di fare quel che Gesù non ha fatto. Egli, che tante volte ha chiesto loro di tacere su di lui, specie sulla realtà di Messia di Israele, chiede loro invece di non nascondere nulla. «Quello che vi dico nelle tenebre proclamatelo sopra i tetti». È quello che fecero i discepoli in Israele e fuori Israele, in tutto il mondo pagano.
Perché il mondo romano abbia odiato il nome cristiano rimane misterioso, e lo fu anche ai romani stessi. Ma all’inizio fu come se il mondo cospirasse a distruggere il seme cristiano, intendendolo nella sua radicale pretesa di riconoscere la vita divina offerta nella fede a ogni uomo e quindi portatore di una violazione del limite e del potere: mentre sul limite era fondata la sapienza greca e sul potere la giustizia romana. Forse fu per questo senso di un illimitato che sconvolgeva la società a partire dal basso, perché riconosceva al singolo la vita eterna che negava sia al sapere che al potere, alla maestà degli stati e delle società.
Su ogni cristiano avrebbe vegliato la provvidenza del Padre: essa avrebbe dato la forza di temere non quelli che uccidono il corpo, ma quelli che vogliono soffocare la vita dello spirito, la vita divina nell’anima. Non per gli affetti cari, per la famiglia, per la patria, Gesù chiede la vita, ma per Dio: per testimoniare che il suo Regno è giunto, perché egli può essere tanto amato.
Chi poteva pensare nel mondo antico che gli dei potessero essere amati? E infine i precetti non soffocavano in Israele l’unico grande precetto, che non era quello di obbedire Dio, ma di amarlo?
Perché Dio potesse essere amato, occorreva che egli avesse passeggiato sulle vie del mondo, che si fosse dimostrato amabile, capace di ispirare una passione d’amore più grande della vita e di ogni altro amore. E questo voleva dire il regno di Dio: che Dio era amato dall’uomo come una donna, un figlio, una madre, un padre, una tradizione. Il regno di Dio stava nell’amore dell’uomo per lui sino alla morte.
Il cristianesimo comparve quando si inventarono i martiri. E in essi i cristiani scopersero il loro vero senso, che stava nel vivere il giorno eterno per amore di un Dio che non toccavano, ma che dava loro, con il suo Spirito, gli occhi per credere in lui.
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- 2 Luglio 2023
Tredicesima domenica del tempo ordinario
2 Re 4, 8-11.14-16a – Sal 89 – Rm 6, 3-4.8-11 – Mt 10, 37-42
Chi accoglie me, accoglie Colui che mi ha mandato
La vita umana per la vita divina
Il brano evangelico di Matteo che si legge in questa domenica sembra a prima vista non omogeneo nelle due parti che lo compongono: la prima parla del rapporto del discepolo con Gesù e l’altra del rapporto del discepolo con gli altri uomini. Il primo brano ha una sua terribile forza: sembra disumano, perché in esso appare il carattere potente e drammatico del divino in Gesù.
«Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me». Israele, e in genere tutte le tradizioni religiose, hanno valorizzato i rapporti sociali, soprattutto i vincoli famigliari. Il divino è anzi abitualmente la dimensione sacra di un gruppo, di una famiglia, di una tribù. Anche in Israele è così, appunto perché è attraverso un legame carnale (l’essere figli di Abramo) che il popolo ebraico sussiste come popolo di Dio. Il vincolo con il divino non passa attraverso la professione di fede, ma nella continuità della generazione.
Gesù chiede che il legame della generazione, dell’esser «figli di Abramo» venga rotto per amore di lui. Egli non parla alla famiglia, alla comunità, parla al singolo, che pone come solo innanzi al Cristo, solo. Tutte le frasi di questo brano evangelico si rivolgono al singolo: «Chi vuol essere mio discepolo…».
Si tratta di una rottura totale, inconcepibile nel mondo ebraico, ma anche nel mondo pagano. Possiamo comprendere che i tempi erano maturi a questa innovazione religiosa, perché in tutto il mondo ellenizzato e romanizzato sorgeva il tema della morte, l’evento individuale per eccellenza, non più come dato, ma come problema. Gesù domanda al discepolo quella rottura che la morte chiede a ogni uomo. E parla di «prendere la croce». Gesù fa un accenno alla sua stessa sorte. Non ha egli lasciato ogni cosa e abbracciato una strada di cui conosce, divinamente e umanamente, l’esito inevitabile, la croce?
La coscienza di Gesù di essere Dio è inseparabile dal più piccolo dettaglio, anche dei Vangeli sinottici, Matteo, Marco, Luca, che pure non giungono mai a chiamare, come in Giovanni, Gesù come Dio. Ma chi se non Dio poteva chiedere a un ebreo o a un pagano molto di più di quello che le rispettive religioni chiedessero loro?
Quello che Gesù offre in cambio del dono totale della vita umana è la vita divina: «Chi accoglie voi accoglie me: e chi accoglie me accoglie il Padre che mi ha mandato». Il discepolo diviene una sola carne con il Cristo, una sola divinità con il Padre. Chi perde la sua vita per Gesù, la troverà: lascerà la vita umana, troverà la vita divina. Gesù non è solo colui che annuncia il regno di Dio sulla terra: questa era stata la missione di Giovanni Battista. Gesù dice che lui è il Regno: e che chi diviene partecipe di lui, diviene regno di Dio, partecipe di Dio. Certo, un Dio che passa attraverso il supplizio degli schiavi, la croce.
Nella messa, dopo il Vangelo, si dice il Credo, in cui si annuncia l’onnipotenza divina. E l’onnipotenza divina si manifesta per il cristiano nel momento in cui essa compie l’impossibile per ogni religione: rende il divino crocifisso e impotente. In questo modo Dio comunica agli uomini la vita divina.
L’eucaristia è il rinnovarsi costante di questo evento: Dio diviene cibo per l’uomo e cambia così l’uomo in Dio. Se il mondo pagano divenne cristiano, fu per questa paradossale trasformazione dei rapporti tra Dio e l’uomo. È ancora così che noi intendiamo il cristianesimo? Se esso è visto come forma sacra, cultuale, se non sentiamo nel Vangelo la richiesta di abbandonare ogni cosa per diventare figli nel Figlio e partecipi della natura divina, il Vangelo diviene un libro chiuso e la messa una abitudine che non abbiamo la forza di interrompere. Il testo evangelico che chiede di amare il Cristo più di ogni altro volto, e di essere trasformati in lui suonerebbe a noi come una metafora che ha perso la sua originaria sponda.
I volumi dei tre anni di commenti al Vangelo della domenica di don Gianni Baget Bozzo (“Buona Domenica. Commenti ai Vangeli domenicali”) sono acquistabili in libreria, sul sito delle Edizioni Dottrinari o sui siti delle maggiori catene di librerie
- 9 luglio 2023
Quattordicesima domenica del tempo ordinario
Zc 9, 9-10 – Sal 145 – Rm 8, 9, 11-13 – Mt 11, 25-30
Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò
Dio nel mondo: il Cristo crocifisso
Forse Gesù avrà visto un uomo portare la croce su cui essere crocifisso: i romani amavano questo supplizio umiliante, riservato agli schiavi. Il supplizio degli schiavi ribelli: una lunga litania di croci aveva segnato la ribellione di Spartaco. In quella croce avrà letto il suo futuro. A un certo momento della storia evangelica, la croce non era per Gesù solo un’evidenza profetica, ma una previsione politica.
Egli aveva coalizzato contro di sé tutti i poteri: e quello totale, quello romano, crocifiggeva. Prendere la croce voleva dire portare la sofferenza inflitta dagli uomini o dalla natura. Accettarla significava compiere la volontà di Dio e essere così discepolo di Cristo. «Chi avrà trovato la sua vita, la perderà. E chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà». Chiunque ha dato la sua vita a Cristo, ha trovato la sconfitta nel mondo.
La sconfitta mondana è il segno certo dell’appartenenza a Cristo. Il successo mondano lo è per un certo tempo e in un certo modo. Poi anche esso è una via alla croce. Dio nel mondo è il Cristo crocifisso, lo Spirito Santo conduce ogni discepolo sulla via del suo Signore. Non è segno di Cristo la ricchezza e non lo è nemmeno la povertà. La croce, che bussa ai palazzi e ai tuguri, è il segno di Cristo. E lo è prima e principalmente la croce scelta per amore della verità. Sono le parole più impegnative che Gesù rivolge ai discepoli. Egli non vuole essere seguito come un operatore di guarigioni e di miracoli, egli porta in sé il mistero della sofferenza divina, come dei partecipi del mistero del Dio crocifisso.
Il discepolo diviene così, nella accettazione della croce, una sola cosa con il Cristo. «Chi accoglie voi accoglie me: e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato». Chi accoglie la sofferenza del Cristo accoglie il mistero Dio.
Siamo qui al cuore del Vangelo, alla densità profonda della persona e del messaggio di Gesù Cristo. Come lontano dall’altro grandissimo messaggio spirituale dell’umanità: quello di Buddha.
Buddha vuole eliminare dalla terra il dolore, vuole collocare lo spirito umano in una zona in cui il dolore non giunge, vuole operare una giuntura dello spirito, dell’anima e del corpo. Gesù invece comunica il dolore divino, non lo fugge ma lo accetta, perché esso fa parte dell’essenza del Dio che ha creato il mondo della libertà.
Certo molti discepoli del Cristo giungono al momento in cui sentono di aver perso la propria vita. Anche le loro vittorie terminano in esemplari sconfitte. Ma solo se il seme muore porta molto frutto. Quelle azioni chieste dal Signore non erano cose, erano semi, destinati a fecondare la terra.
Nel momento in cui si vede la propria vita perduta, la fede ci dice che essa è donata ad altri. Altro è chi semina, altro chi miete. E chi miete seminerà ancora. Questa è la storia di Gesù Cristo.
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- 16 Luglio 2023
Quindicesima domenica del tempo ordinario
Is 55, 10-11 – Sal 65 – Rm 8, 18-23 – Mt 13, 1-23
Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete
Uomini piccoli, grandezza infinita
Gesù sale su una barca. Siamo in Galilea, nella primavera del Vangelo, quando attorno allo sconosciuto predicatore che veniva da Nazaret e che parlava oltre le gerarchie stabilite, come fanno i profeti, si raccoglievano le folle. Ma Gesù sa già che le folle non lo seguiranno, che egli non sarà nella sua vita un leader di massa.
Se lo avesse voluto, avrebbe seguito il consiglio che «l’intelligentissimo spirito» (come il cardinale Inquisitore chiama il tentatore, Satana, nel racconto di Dostoevskij ) e avrebbe dato agli uomini pani, miracoli, potere. Ma «il potere logora chi non ce l’ha» e Gesù non lo aveva: e non lo voleva. Per questo non offre «cose» e, parlando alla folla, non si rivolge alle masse.
Il regno di Dio è un regno delle persone, in cui il prezzo dell’ingresso e il dono che si riceve sono il medesimo: la libertà. Nel Regno entra la libertà umana e il dono del Regno è la libertà divina.
Il testo che leggiamo, infatti, è il canto della libertà umana e di quella divina. Gesù offre il regno di Dio a tutti gli uomini. È il gesto della libertà divina che offre se stessa senza condizioni. Ma sa che non sarà accolta al medesimo modo. E paragona sé stesso a un seminatore: «Una parte del seme cadde sulla strada, e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in un luogo sassoso: restò bruciata e, non avendo molte radici, si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta».
Che strano incurante seminatore, questo del Vangelo, che butta il seme con tanta distrazione. Ma questo è per Gesù non un racconto ma una parabola, un paradosso. Le circostanze comuni del reale quotidiano vengono modificate per produrre appunto un effetto inverosimile: è su questa inverosimiglianza che sta il senso della parabola.
Il seminatore trascurato e distratto è Dio stesso che offre a tutti gli uomini, buoni e cattivi, il suo seme, sé stesso. E il seme è Gesù stesso, il Figlio del Padre.
La distrazione del seminatore indica che Dio accoglie tutti, ogni uomo. Ma gli uomini non accolgono in modo eguale il seme divino, il dono del Padre. È la libertà umana che dà la misura del successo o dell’insuccesso di Dio, della fecondità o della sterilità del suo seme.
La libertà umana è indicata dalla differenza dei terreni, che danno frutto secondo la loro scelta. Solo Dio conosce il frutto del suo seme. Per questo, in altro punto del Vangelo, è detto «non giudicate e non sarete giudicati».
Compare così nella storia la libertà di ogni uomo, per piccolo, umiliato e infelice che sia, nel solo momento in cui essa è assoluta: innanzi a Dio.
Il più piccolo degli uomini diviene così portatore di una grandezza infinita: può dire «sì» o «no» al Creatore, all’Assoluto. La storia della cristianità, quindi dell’occidente, ha qui la sua radice.
Per quanto i frutti possono essere diversi e le colpe grandi, l’uomo della cristianità ha portato in sé e per il mondo il peso e la forza di questa parola.
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