Commento al Padre Nostro (Genova, Gruppo del Mercoledì, 1972)
Il Padre Nostro è nel Vangelo di Matteo e in quello di Luca. Vi sono infatti due versioni diverse: una più ampia e più bella quella di Matteo, mentre è più corta quella di Luca. I riferimenti sono Matteo 6,9 e Luca 11,2.
Noi seguiremo la versione di Matteo. Com’è noto, questa è una preghiera che, nel Vangelo di Luca, è data come risposta del Signore agli apostoli che chiedono: “Insegnaci a pregare come Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” e il Signore disse loro: “Quando pregate dite così…”. Invece, in Matteo, il discorso del Padre Nostro è inserito nel testo del discorso della montagna.
In questo grande testo in cui si trovano associati vari insegnamenti del Signore. Vediamo insieme il testo: “Padre nostro che sei nei cieli” in Matteo, semplicemente “Padre” in Luca: è possibile che la versione originaria sia quella di Matteo perché mantiene qualcosa che può essere considerato come proprio dello stile del Signore, un certo uso delle regole e della poesia ebraica, parallelismi e ripetizione del concetto, infatti il Padre Nostro è diviso in due parti.
Nella prima parte ci sono tre domande in cinque versetti e cinque versetti e tre domande nella seconda parte; nel resoconto di Matteo si mantiene uno stile poetico (che era anche uno strumento mnemonico) che non giovava alla bellezza del testo, ma facilitava il suo essere ricordato. E questo è la caratteristica di quello che si può immaginare lo stile personale del Signore, usato come criterio per determinare quello che nei Vangeli è ipsissima verba Jesu, le stesse parole di Gesù. E questo è il ricordo di Matteo, nella sua versione, piuttosto che di quello di Luca.
“Padre nostro che sei nei cieli” in Matteo, “Padre” semplicemente in Luca. Padre è il termine che Gesù usa preferibilmente in riferimento a Dio; Gesù usa sempre questo termine quando si rivolge direttamente a Dio. Il Vangelo di Giovanni poi dà tutta la sistemazione di questo aspetto. La parola che Paolo ci conserva, quando dà esattamente questa parola come modello ai cristiani, affermando che lo Spirito Santo parla ai nostri cuori; dicendo proprio questa parola, “Abba” “Pater”, si riferisce probabilmente all’espressione propria di Gesù. E indica un’espressione confidenziale, qualcosa come simile al nostro “papà”, qualcosa che indica la relazione dell’unità.
Gesù, tuttavia, non usa mai altro se non, nel Vangelo di Giovanni, dopo la resurrezione. Esiste una differenza tra il senso in cui Egli dice “Padre” e il senso in cui ne parla ai discepoli, e, solo dopo la resurrezione, dice, nella versione di Giovanni, “ascendo al Padre mio e al Padre vostro, al Dio mio al Dio vostro”, versione in cui spiega benissimo, perché il Vangelo di Giovanni contiene un discorso sulla paternità di Dio rispetto a Gesù e rispetto ai discepoli, della loro differenza, della loro unità, della paternità di Dio verso Gesù e verso i discepoli.
Abitualmente invece nei tre Vangeli, e anche nel Vangelo di Giovanni, Gesù si rivolge sempre a Dio come Padre in un senso che a lui è esclusivo.
Quando qui dice “Padre nostro”, lo dice rivolto ai Discepoli perché essi preghino così.
Anche se la paternità di Dio è sempre distinta in Gesù, invita anche loro a utilizzare il nome di Padre. Se pure è diverso il senso in cui dice “Padre mio” e quello in cui dice “Padre nostro”, tuttavia Egli vuole che usino il nome di Padre.
Ed è per questo che Paolo dice, nella lettera ai Romani “avete ricevuto in dono lo Spirito Santo” e la condizione di figli vi permette di chiamare “Abba” che vuol dire “Padre” quando “ vi rivolgete a Dio” e quindi di usare il medesimo nome che usava Gesù.
Anche Paolo come l’Evangelista Giovanni scrive nella luce della Resurrezione. Quindi, se seguiamo il riferimento di Matteo e lo confrontiamo con quello di Luca il senso è lo stesso. Quando Gesù insegna il Padre Nostro comunica ai discepoli, pur mantenendo la distinzione, il modo, il senso che è proprio di Lui nei rapporti con Dio: cioè la figliolanza.L’espressione di Luca è quasi ancora più chiara perché non distingue affatto: “Padre”.
Luca risente della teologia della resurrezione, come Paolo e Giovanni, cioè che ormai il titolo di Padre è usato dai discepoli come espansione dell’uso del titolo che ne dava Gesù.
Ma qui invece Matteo, che si riferisce ancora alla situazione originaria, che ricorda le stesse parole di Gesù, mantiene invece l’espressione diversa, Padre nostro, quindi non è semplicemente il Padre, il nome che Egli usa nel Vangelo, è il “Padre nostro” che, pur nell’identità del titolo, “Padre” mantiene una differenza tra sé e i suoi discepoli.
“Che sei nei cieli”, indica la trascendenza divina, questo è il riferimento in tutto l’Antico Testamento a Dio; cioè che Egli si situa in una dimensione diversa dell’uomo, quella che il cielo esprime, e il cielo è considerato appunto, con il linguaggio di tutte le religioni, come la sede del divino.
Ora vengono le tre domande: “sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra”.
Con tutta probabilità la determinazione ultima “come in cielo così in terra” va intesa come caratteristica di tutte e tre le richieste “Sia santificato il tuo nome, venga il tuo Regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Allora viene fuori che “Padre nostro che sei nei cieli”, e cioè nel tuo spazio, fa che lo spazio nostro, la terra, abbia ciò che è in cielo: la gloria, la santità, il regno, la volontà di Dio, come unica realtà, che anche la terra abbia quindi questa realtà come il cielo.
Sulla terra come nei cieli sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno e sia fatta la tua volontà.
Per rendere chiaro questo concetto, in realtà, in italiano, la cosa migliore traducendo sarebbe quella di rovesciare la frase: Padre nostro che sei nei cieli, nei cieli e sulla terra sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà; questo renderebbe più chiaro il concetto e il movimento del pensiero. Nella lettura abituale noi siamo portati a leggerlo, anche nella Messa, come se “come in cielo così in terra” debbano dare semplicemente un’accettazione “sia fatta la tua volontà”, ma lo sviluppo del discorso indica invece che “così in cielo come in terra“ si riferiscono a un’interpretazione che era stata vista già in antico, per esempio da Origene, che la determinazione riguardava tutti e tre i versetti e non solamente l’ultimo versetto.
La santificazione del nome è la prima richiesta. Il nome è il simbolo di Dio.
Il nome di Dio è ciò che di Dio è comunicato all’uomo, nell’Antico Testamento: avere il nome vuol dire conoscere Dio. Quindi il nome rappresenta ciò che del divino è sulla terra, la sua espressione che ci è data di conoscere.
Che “sia santificato” in questo caso è un riferimento all’antico testamento. La legge, l’antica legge, è destinata a dare un popolo santo, un popolo che si possa avvicinare a Dio, che non sia respinto dalla sua santità, un popolo che partecipi alla santità di Dio in modo possa avere accesso a lui. Quindi in questo caso sia santificato significa che il popolo sia, nell’osservanza della parola di Dio e del precetto del Signore, sia fatto santo in modo che il nome di Dio non sia profanato, visto che esso è dato a questo popolo, ma sia custodito; nell’antica legge, nell’antico testamento, la conoscenza del nome è data al popolo ebraico insieme alla legge, in modo che conoscere Iddio abbia come effetto e, al tempo stesso, come condizione il fatto che il nome sia onorato mediante la condotta della vita. Quindi sia santificato il tuo nome vuole dire: il popolo segua la legge che tu gli hai dato in modo che il nome, e quindi la conoscenza, non sia profanato dai costumi del popolo difforme dalla legge di Dio.
Questo contenuto è una preghiera rivolta a Dio stesso cioè è Dio stesso che deve santificare il suo nome, far sì che il popolo lo santifichi.
Questo si riferisce alla tematica profetica del cambio del cuore: la promessa in Geremia e di Ezechiele di dare i precetti della legge nel cuore dell’uomo, in modo di dare al suo popolo il suo Spirito in modo che possa compiere la Legge. Vuol dire dunque: sii tu il principio stesso del fatto che il popolo santifichi il tuo nome.
E’ il tema in sostanza della vita cristiana. Dio stesso cambia il cuore e rende così possibile che il credente osservi la legge di Dio nella vita. E così il nome, la presenza del divino, sia radicata nel cuore che sia veramente capace di contenerla.
“Sia santificato il tuo nome” è una proposizione in cui il soggetto ultimo, colui che deve santificare, è Dio stesso: a causa tua, per tua iniziativa, per il tuo dono, il popolo sia santo e capace così di non profanare il tuo nome.
“Venga il tuo regno” introduce un tema escatologico, questa preghiera è come la famosa frase “passi il mondo e venga il regno”, e indica la fine del mondo? o si riferisce a questo tempo?
Il termine della venuta del Regno è usato nei Vangeli, massimamente nella prima parte, quando si riferisce alla predicazione galileaica di Gesù in Galilea. E’ riferito soprattutto al Regno di Dio di cui Gesù è messaggero; è giunto a voi il regno di Dio, si è avvicinato a voi Dio, che vuol dire che in lui, Gesù, è giunto il regno.
Quando lo diciamo in questa preghiera che cosa si intende? “Che venga il regno” vuol dire che il Regno sia accolto dagli uomini. Quindi ha un riferimento all’atteggiamento umano e a questo tempo. Che il tuo regno venga significa che gli uomini lo accettino. E qui si capisce effettivamente che si da importanza nel Padre nostro a questo concetto e che le parole “come in cielo, così in terra” si riferiscono a tutta la preghiera: sulla terra, qui, ora, il tuo regno venga, e gli uomini e le donne lo accettino. E in questo senso accettino Gesù che porta il Regno.
E la cosa può avere in termine ultimo un riferimento escatologico: venga alla fine. Si può porre anche così questa domanda; tuttavia nel contesto evangelico la venuta del Regno indica quello che avviene in questo tempo, ora, sulla terra, con Gesù, quindi non è immediato il riferimento escatologico, lo contiene indirettamente, ma direttamente, no.
“Sia fatta la tua volontà”, avvenga la tua volontà. Espressione, anche questa, che indica la stessa cosa: la volontà di Dio, il suo progetto, il suo disegno, la sua volontà di salvezza.
“Questa è la volontà di Dio, la vostra santità”: dice Paolo nella lettera ai Tessalonicesi. “Ciascuno custodisca il proprio corpo nella pudicizia”, volontà, in questo caso, indica la santità che è lo stesso concetto di prima: “Sia fatta la tua volontà”, il tuo progetto che è la santificazione, sia compiuto.
Qual è il modello della santificazione, della venuta del regno, della volontà? Il Cielo, appunto.
Queste realtà avvengono sulla terra come avvengono in Cielo. La signoria di Dio sugli angeli è vista come modello della signoria di Dio sui credenti.
E con ciò si conclude la prima parte del Padre Nostro che riguarda fondamentalmente il rapporto che esiste tra la paternità divina e il suo riconoscimento da parte dei discepoli.
Figli, in questo, i discepoli perché offrono la loro terra e il loro cuore come un Cielo per Dio, come un luogo in cui veramente il Nome è santificato e la Volontà compiuta. In questa prima parte del Padre Nostro è fondamentalmente il rapporto tra l’uomo e Dio che viene considerato.
Nella seconda parte il Padre Nostro scende invece sulla terra e ha un riferimento immediato sui problemi che l’uomo incontra sulla terra.
“Dacci oggi il nostro pane”: come tradurre la parola dal greco? Esistono due versioni. La parola che viene usata è utilizzata soltanto in questo contesto, è un parola usata soltanto nella letteratura neotestamentaria e l’antica versione latina (vulgata) traduce con quotidiano: panem nostrum quotidianum. L’altra versione (di Gerolamo) traduce con panem nostrum supersubstantialem che sembra la traduzione quasi esatta della parola greca.
Questa parte del Padre Nostro è conservato nel Vangelo degli ebrei dove l’espressione kath hemeran (καθ’ ἡμέραν) significa “fino a domani”; se bisogna leggere così questo “epiousious”, il senso sarebbe “dacci oggi il nostro pane fino a domani”. E questo, come è noto, è un riferimento alla manna e questo mostra l’intelligenza teologica di Dante, il quale, senza questi discorsi, tradusse, nel canto X del Purgatorio “ da oggi a noi la cotidiana manna, sanza la qual per questo aspro diserto a retro va chi più di gir s’affanna”.
Questa versione potrebbe essere dunque la giusta traduzione: “dacci oggi il nostro pane fino a domani, cioè da a noi la condizione del vivere, in modo che così possiamo essere sempre tuoi, così come tu l’hai data agli ebrei nel deserto”. “Dacci oggi il nostro pane fino a domani”, infatti la manna si poteva cogliere solo per un giorno.
La traduzione che ho detto rimane quella più sensata, altrimenti la parola rimane inintelligibile e il termine “supersubstantialem”, che fa riferimento all’eucarestia, sembra essere certamente fuori dal contesto e “quotidianum” sarebbe un’acquisizione “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
Ma la traduzione “dacci oggi il nostro pane sino a domani”, probabilmente quella più giusta, ha un vero senso spirituale: “dacci oggi la condizione di vivere fino a domani”, in modo che noi siamo sempre alla tua dipendenza. Sarebbe una cautela contro l’avarizia, contro il desiderio della sicurezza umana, contro il desiderio della sicurezza nei confronti di Dio e come, appunto, la manna nel deserto ha questo riferimento. Soltanto Dante e un traduttore del secolo ottavo ebbero l’idea di far riferimento alla manna.
“Togli a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Qui vi è una differenza tra Matteo e Luca. Matteo dice debiti invece Luca dice peccati.
“Togli a noi i nostri peccati come noi li rimettiamo a colui che è obbligato verso di noi”. Il termine del debito compare quindi in Luca, ma il termine usato da Matteo è peccato.
Il testo è con il senso più significativo e originario “rimetti a noi i nostri debiti”, che significa, come nel Vecchio Testamento che il popolo scelto da Dio, a cui Dio si è legato con l’alleanza, è legato all’alleanza, e il venir meno alla legge di Dio, è venir meno all’alleanza. Ma questa alleanza che lega l’israelita in Dio, lega tutti gli altri israeliti. Quindi si comprende come sia “rimetti a noi le nostre violazioni dell’alleanza, come noi le rimettiamo a tutti quelli che l’hanno violata, la medesima alleanza, nei nostri confronti”. Ritorna qui il tema dei due comandamenti: ama Dio come il prossimo. Ebbene togli a noi i debiti riguardo all’amor di Dio come noi rimettiamo le colpe che il nostro prossimo ha verso di noi per non averci amato.
Il termine debito indicherebbe meglio il concetto, il vincolo che l’alleanza ha stabilito tra l’uomo e dio (l’uomo ebreo e poi cristiano, riferito alla nuova comunità che Gesù fonda, il nuovo Israele, la Chiesa). Noi legati a Te, se veniamo meno al legame, diventiamo tuoi debitori; noi ti chiediamo di cancellare il nostro debito così come noi lo cancelliamo a quelli che, per il medesimo legame, l’alleanza, la Legge, sono diventati debitori nei nostri confronti. E’ quindi la medesima realtà, la legge che ha vincolato a Dio il popolo eletto, l’ebreo con l’ebreo, il credente con il credente e il cristiano con il cristiano. In questo caso, i due testamenti e le due alleanze hanno la medesima realtà, il patto, che ha fondato il vincolo tra Dio e l’uomo, il vincolo tra l’uomo e l’uomo.
Si capisce quindi come vi sia un parallelo: noi rimettiamo le violazioni del vincolo che ci riguardano e tu rimetti quelle che ti riguardano.
Questo viene dato come invocazione: “togli a noi i nostri debiti e noi, quasi come un impegno, li togliamo ai nostri debitori”. E’ come una restaurazione del patto, in tutti i suoi aspetti.
E’ il termine della santificazione, ma stavolta dettagliato, detto non più in riferimento a Dio, ma in riferimento alla condizione dell’uomo sulla terra.
Quando Luca dice (αμαρτία )“amartia” dice in fondo la medesima cosa, ma è chiaro che ha perso il senso più profondo che è nel detto che fa riferimento alla legge. “Amartia” ha un significato più generale, ma “ofelemata” (ωφελήματα) ha questa dimensione di riferimento al vincolo, al legame, al patto contratto nell’Antico Testamento che lega l’uomo a Dio e Dio all’uomo, ed è nell’Antico Testamento come nel Nuovo.
Qui viene il punto più difficile del Padre Nostro: “ non introdurre noi nella tentazione” e il testo è identico in Matteo e in Luca. Questo testo ha creato sempre dei problemi perché presupporrebbe che Dio potesse condurci alla tentazione.
La “prova” del testo, non è nel senso della sofferenza, ma proprio della tentazione. Non è che questo concetto sia del tutto senza qualche riferimento con il Vangelo: nel deserto Gesù viene tentato dal demonio, lo si dice nel Vangelo di Marco. Ma se consideriamo tuttavia il testo del Padre Nostro, sia in Matteo sia in Luca, quello che si può affermare è che la traduzione più esatta non è quella che poi è prevalsa “non indurci in tentazione”, che è nata dalla traduzione latina : “Sed ne nos inducas in tentationem”. La ragione più probabile di questo fatto è che il Padre Nostro viene da una lingua semitica e le lingue semitiche hanno una forma specifica, come il modo, per indicare il causativo permissivo, come il nostro futuro o il nostro condizionale, mentre il latino, come il greco, ha un modo l’ottativo per indicare il desiderio, la condizione. Le lingue semitiche hanno invece un modo proprio per indicare il causativo: in questo caso “fare entrare”; usando l’ausiliare “fare” modifica il tema della parola, come noi la modifichiamo noi applicando il congiuntivo o il condizionale. Il risultato è che le indicazioni diventano difficili a essere tradotte. Il causativo ebraico si può quindi tradurre con “non fare entrare oppure fa che non entriamo”.
La negazione può indicare sia il causare sia il contenuto dell’azione: il senso è diverso evidentemente, mentre nel testo greco, che non ha questa forma, non può essere altro che “non ci indurre in tentazione, non farci entrare in tentazione”, come d’altronde il latino tradotto dal greco.
Ma in realtà supponendo un testo ebraico, con la forma causativa, si può tradurre “fa che non entriamo nella tentazione”: il senso è interamente diverso perché in questo caso se la negazione è riferita non al “causare”, ma alla “azione causata”, al contenuto, allora le cose sono diverse; in questo senso non è più Dio che fa entrare in tentazione ma è l’uomo che entra in tentazione. “Guardaci dall’entrare in tentazione”: viene in mente il quarto Vangelo dove dice “Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno”. In questo caso avremo un riferimento quasi letterale tra la “preghiera sacerdotale” e il Padre Nostro.
Si potrebbe tradurre correttamente per il Padre Nostro “Ma guardaci dall’entrare in tentazione” e probabilmente il senso è esatto.
Nella pietà cristiana ormai diciamo il Padre Nostro meccanicamente e queste cose nemmeno le pensiamo. In certo senso nella versione della vulgata latina e nelle lingue neolatine, come nella versione italiana, nella Messa, ci dicono una cosa in sé attribuirebbe a Dio il condurre nella tentazione, il tentare. Invece questo non è affatto richiesto dal senso del Padre Nostro.
È una versione letteraria dal greco, ma bisogna ricordare che il greco, a sua volta, era una versione dall’ebraico.
Se questa preghiera era probabilmente detta in ebraico o in aramaico a carattere solenne, questo cambierebbe poco, questo significherebbe comunque sempre il medesimo concetto, tutte e due le lingue hanno la medesima forma causativa del verbo: quindi la traduzione più giusta è: “guardaci dall’entrare in tentazione, custodiscici dall’entrare nella tentazione”.
“Ma libera noi dal Maligno”, questa preghiera manca in Luca, il suo Vangelo termina senza quest’ultima frase.
Perché si fa riferimento al Demonio, perché non esiste il male. Questo è un linguaggio per noi proprio della filosofia: nella Bibbia “πονηροu” che si può tradurre come “del male” o “del Maligno”, ma è chiaro che qui si indica il Maligno, perché il Vangelo non conosce “il Male”, ma “il Maligno”. Tanto più che nell’Antico Testamento “ο πειρασμός”, la tentazione di Giobbe, di Elia, è opera di “ο πονηρός”, il demonio, che è autore della prova, come appunto nel racconto delle tentazioni evangeliche. Quindi, “libera noi dal Maligno”, questa versione rafforza, secondo la legge del parallelismo, la tesi detta prima. Perché, secondo la legge del parallelismo, nei salmi, il primo stico (ogni verso ebraico è chiamato stico, due o tre di questi versi formano l’unità fondamentale della poesia ebraica (la nostra strofa), che è sempre posta in parallelismo. NdT) è in relazione al secondo, il primo verso al secondo.
E quindi “Fa che noi non entriamo in tentazione, liberaci dal Tentatore”, così da quest’ultimo versetto si capisce meglio il precedente: sarebbe il medesimo concetto ripetuto due volte. Si comprende a maggior ragione che il primo versetto non sarebbe “non c’indurre in tentazione”, ma “non farci entrare in essa, liberaci da colui che tenta”.
“ο πειρασμός” che cosa è? La tentazione ultima? Certamente noi sappiamo dall’Apocalisse sinottica (Marco, cap.13, Luca, cap.21, Matteo, cap.24) che, negli ultimi tempi, i pseudoprofeti possono fare prodigi e sedurre anche gli eletti.
In fondo, i discorsi di Matteo, Marco e Luca, nell’Apocalisse sinottica, ci dicono che la situazione degli ultimi tempi è la più drammatica; la seconda lettera ai tessalonicesi racconta che l’uomo nemico di asside al tempio di Dio e domina tutto ciò che appartiene a Dio, in quel momento è il massimo della tentazione.
Tuttavia, ciò non è detto che il verso del Padre Nostro si riferisca, in modo specifico, a quel momento, che abbia quindi un carattere immediatamente escatologico. Il “πονηρός”, il Maligno, opera sempre e la preghiera del Padre Nostro è detta in riferimento non solo all’ultima della storia universale, ma fondamentalmente nei confronti di ogni tentazione. Il Padre Nostro ha sempre un riferimento alla condizione abituale, alla condizione di tutto il periodo che sta tra la prima e la seconda venuta e non semplicemente alla conclusione di esso, ai novissima historiae e novissima mundi considerati nella loro ultima determinazione in materia.
Questo è quello che possiamo dire sul Padre Nostro così come è. In un certo senso è un riassunto di tutte le massime evangeliche; esprime in breve, in forma di preghiera, tutto il messaggio del Signore: il riferimento totale a Dio, la santificazione, il perdono del fratello, come riferimento al perdono di Dio, il distacco dalle ricchezze, il segno della potenza avversaria del Tentatore, tutti elementi che tornano nel Vangelo e che qui vengono sinteticamente espresse nella preghiera del Signore.