Improvvisamente, Dossetti decise di lasciare la Dc e sciogliere la corrente dossettiana. Ciò era, paradossalmente, dovuto al fatto che la corrente dossettiana era diventata maggioranza nel partito. E come poteva una corrente antiatlantica, contraria alla alleanza di centro, vicino nella sua inclinazione al Pci, conquistare il partito? Intanto io mi ero distaccato dalla tesi di Dossetti e di Costantino Mortati sul primato del partito sullo Stato. Con ciò crollava il mio dossettismo, e l’avvicinamento a De Gasperi divenne non solo morale ma anche concreto. De Gasperi finanziò una rivista, Terza generazione, il cui scopo era di unire i giovani al di là dei partiti e superare la divisione tra fascisti e antifascisti. La morte di De Gasperi significò la fine dell’iniziativa. Amintore Fanfani e Mariano Rumor, divenuti segretario e vicesegretario del partito, mi offrirono di sostenere la rivista, ma io rifiutai. Capisco meglio ora perché feci questa scelta, dettata allora da un profondo istinto: sentivo, anche se ancora non lo sapevo, che Fanfani era l’uomo della partitocrazia e dello statalismo. Con ciò, la mia vicenda politica era conclusa. Le due figure fondamentali in riferimento alle quali era nata, De Gasperi e Dossetti, non la sostenevano più. Tornando dopo sette anni da Roma a Genova, avevo rinunciato alla politica nazionale, e alcuni amici mi coinvolsero nella politica locale. Era la sinistra di Base, ma accettai lo stesso. Venni eletto consigliere comunale ed ero ancora tanto di sinistra che rifiutai di fare l’assessore con una giunta dc monocolore, appoggiata dall’esterno dal Msi.

Ma nel frattempo in me era avvenuto un cambiamento che riguardava i rapporti con Dio. L’esperienza mistica iniziò con un senso fortissimo della Presenza divina, al punto tale che, per un anno, non fui in grado di leggere un libro senza che la mia vista si appannasse. Poi l’esperienza divenne Voce, e scrissi per un certo tempo le locuzioni. Lo scritto era solo un aiuto per riaffermare in me l’esperienza mistica, il tema centrale della Voce era l’annuncio di una grande crisi dottrinale che avrebbe invaso la Chiesa dall’interno. In sostanza era il medesimo fenomeno che, vent’anni dopo, Paolo VI avrebbe chiamato l’“autodistruzione della Chiesa”.
Io allora non pensavo affatto quello che ascoltavo, la Chiesa sembrava ancora solida e compatta, sotto la guida di Pio XII. Neanche i molti libri di teologia che allora leggevo mi davano questo segno. Ma sapevo anche, nel medesimo modo, che la cooperazione tra Dc e Pci sarebbe stato il segno politico di questa crisi ecclesiastica.

Dopo tre anni di un regime spirituale intenso, io ero cambiato. Nel ’58 ruppi con Fanfani e con La Pira, scrivendo su Il quotidiano, l’organo dell’Azione cattolica, una serie di articoli contro l’apertura a sinistra, favorita dalle Acli. Essi servirono, anche per la sede in cui erano pubblicati, a determinare nel ’59 la crisi del governo Fanfani e la nascita del monocolore di centrodestra, guidato da Antonio Segni e appoggiato all’esterno da liberali, monarchici e missini. Prima di giungere a quel governo, la corrente di Iniziativa democratica si era spezzata nei due tronconi dei dorotei, contrari all’apertura a sinistra, e appunto dei fanfaniani. I dorotei avevano l’appoggio del Vaticano, ma quando l’operazione Segni fu conclusa il segretario di Stato cardinale Tardini chiese a Nino Bandano, direttore del Quotidiano, di porre fine ai miei articoli. Intanto, avevo preso contatti con Luigi Gedda, fondatore dei Comitati civici. Con lui e con il suo sostegno, decisi di fondare un quindicinale che chiamai L’ordine civile. Non so se riuscirò mai a ripubblicare quella rivista, di cui ho perso gli esemplari, ma essa sarebbe oggi attuale: aveva per oggetto due temi fondamentali, la riforma in senso presidenziale dello stato e la critica della partitocrazia. Sostenevo lo stato come autorità legittima, avente in sé la sua potestà, legittimata dal consenso dei cittadini, contro l’intrusione dei partiti nella amministrazione dello Stato, rubando l’espressione a Marco Minghetti. Ordine civile veleggiò tranquilla nel ’59 e nel ’60, fino a quando giunsero i fatti di Genova.

Accadde che un congresso del Movimento sociale italiano, che all’epoca appoggiava dall’esterno il governo monocolore democristiano presieduto da Tambroni, venne attaccato dai “camalli” del porto. La polizia, intervenuta, finì nella grande vasca d’acqua al centro della città. Episodi simili ne avvennero molti in varie città italiane, organizzati dal Pci e dalla Cgil. La polizia sparò a Roma e a Reggio Emilia ci furono morti.

Fu a quel punto che la Dc decise di delegittimare il governo Tambroni e dar vita a un governo Fanfani, cui concorrevano i quattro partiti di centro, pur senza costituire maggioranza politica. Fanfani, nelle dichiarazioni di governo, legittimò i fatti di Genova e il sentimento popolare contro il governo Tambroni. Avveniva così un salto politico decisivo: si ammetteva che un governo monocolore democristiano era stato un rischio per la democrazia, un governo golpista. E che i comunisti, col loro partito e il loro sindacato, la democrazia l’avevano invece salvata. Si determinò con questo un cambiamento decisivo nel sistema politico: governare contro i comunisti poteva significare attentare alla democrazia. La legittimità politica passava dal Parlamento al controllo comunista della piazza. E finiva l’anticomunismo democristiano. Fu la storia successiva del Paese a dimostrare la radicalità del mutamento. Il terrorismo nero e rosso, la deviazione e i servizi segreti che dominarono gli anni 60 e 70 nacquero tutti dai fatti di Genova. Lo Stato divenne insicuro e pensò da allora a usare la sua mano oscura, i poteri eccezionali conferiti ai servizi segreti. E da questa situazione nacque il terrorismo rosso.

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