Commento all’articolo:

L’uomo e la natura di don Gianni Baget Bozzo

Spesso si sente affermare la natura luciferina della tecnica, quasi come se quest’ultima avesse raggiunto un livello di autonomia tale da fare a meno dell’operato dell’uomo, che si vede a sua volta fagocitato dalla potente forza della tecnica stessa. D’altra parte e in stretta connessione, altrettanto sovente si eleva il peana del ritrovato e rinnovato rapporto viscerale della natura, che in molteplici circostanze ha mostrato di essere in grado di fare strame delle deboli fortificazioni umane poste a baluardo difensivo. Un’oscillazione di fondo, dunque, anima il dibattito: di qui, la tecnica ci fa perdere il contatto reale e autentico con la “Realtà naturale”, sostituendola con un surrogato incompleto e imperfetto che ci inganna con la sua efficacia; di là, la natura che, manifestando una forza incontrollabile, si reimpossessa degli spazi illecitamente sottratti dalla nostra ubris prometeica. Natura e tecnica vengono così contrapposte e fatte confliggere in un gioco di faziosità reciproche che ricalca l’oramai classica biforcazione echiana tra apocalittici (coloro che scorgono nella tecnica e nelle sue applicazioni i segni manifesti di quel “pericolo esistenziale” denunciato più recentemente dal filosofo Nick Bostrom in riferimento all’intelligenza Artificiale. Cfr. The Guardian e integrati (i tecnofili incalliti che non si rendono conto delle problematiche intrinseche ad ogni attività tecnica).

Tra i due estremi non resta altro che il deserto? Una via alternativa è impraticabile? In realtà no. Una via c’è; e non è una terza via, ma una via totalmente altra: la via della de-sacralizzazione. Mi spiego: cosa hanno in comune gli apocalittici e gli integrati? L’elevazione totemica. Gli apocalittici totemizzano la natura e si impegnano a proteggerla dalle insidie di un agire umano insinuantesi tra le pieghe di un dominio sì familiare, ma che deve restare, in fondo, protetto da un rispetto reverenziale inviolabile. Di contro, gli integrati totemizzano la tecnica venerandola come l’unica istanza degna di considerazione, come se fosse l’incarnazione dello slancio evolutivo e la realizzatrice unica dell’utopia di un mondo migliore e pacificato. Natura da un lato e tecnica dall’altro divengono così intangibili, separate dalla storia del genere umano, alla stregua di forze quasi sovra-naturali. Ecco, è proprio questo alone di sacertà che deve essere infranto: de-totemizzare, de-sacralizzare sono allora le due operazioni fondamentali da mettere in campo se si vuole pensare seriamente il rapporto tra natura e tecnica.

La desacralizzazione richiama pertanto la necessità di un’operazione filosofica integrale che si impegni a pensare la totalità del reale come uno spazio aperto e in perenne inte(g)razione. Se vogliamo farci un’immagine di questo modello è il reticolo quella che viene in mente. Non più il segmento AB, delimitato dagli estremi contrapposti (nel nostro caso natura e tecnica), ma una rete di relazioni che unisce i vari nodi del reticolato. Natura e tecnica, allora, per quanto ontologicamente differenti, perdono quella separatezza reciproca per mettere piede su quel terreno comune che le vede intrinsecamente relate, essendo la tecnica un prolungamento della natura e la natura il campo da gioco della tecnica. Desacralizzare, in fondo, implica ri-sacralizzare la natura e la tecnica, guidati da uno sfondo concettuale del tutto rivoluzionato. In questo si condensa la proposta del filosofo francese Gilbert Simondon (1924-1989) che ha offerto intuizioni capitali sui modi d’esistenza dell’oggetto tecnico (Du mode d’existence des objets techniques del 1958 è non a caso il titolo della sua tesi complementare di dottorato) e che vorrei qui citare:

La degradazione della sacralità non è tanto la materialità delle sue rappresentazioni quanto la condizione di separazione, di frammentazione, di mobilità manipolabile degli oggetti che la rappresentano – medaglia, amuleti, immagini. Non occorre strappare la tunica, non occorre frammentare il sacro, perché esso è, nella sua natura, universo e rete di punti-chiave, tessuto di centri, comunicanti gli uni con gli altri e rispondentesi in questa struttura di unità-pluralità, di molteplicità comunicante. Rompere la rete per volgere a proprio profitto uno dei nodi vuol dire distruggerlo come nodo. Il tessuto frammentato non è un tessuto, non più di quanto una sola molecola possa essere da sola un cristallo, ma richiede altre molecole della stessa specie per formare con essa una struttura reticolare infinita e sempre ricominciante in ogni maglia (Sulla tecnica, trad. it. di A. S. Caridi, Orthotes 2017, p. 59).

Per fare un esempio tangibile, più volte chiamato in causa nelle opere del filosofo francese, si può ricordare il Viadotto di Garabit, ideato da Gustave Eiffel e che unisce le due sponde della vallata del fiume Truyère. Questa opera ben rappresenta la natura reticolare del rapporto tra natura e tecnica: non vi è un dominio dell’una sull’altra, ma una relazione di inte(g)razione reciproca autentica. È come se l’oggetto tecnico – il viadotto – si fosse inserito tra le pieghe di un territorio aperto ad accoglierlo, il quale ha fornito a sua volta lo spazio essenziale – la vallata – alla realizzazione dell’oggetto tecnico stesso. Non vi è forzatura, né conflitto. Si è riconosciuto un punto-chiave, un nuovo nodo di una relazione che si è venuta concretizzandosi. Il paradigma antagonista è così definitivamente accantonato a favore della presa di coscienza di quell’unità di fondo che vede tecnica e natura intimamente interrelate.

Simone Vaccaro


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