Per concessione della rivista Studi Cattolici del Febbraio 2008
Edizioni Ares – Via santa Croce 20 – Milano
L’immortalità dell’anima
La vita divina data in dono all’uomo dallo Spirito Santo per la redenzione operata da Gesù di Nazaret fonda originariamente la verità di fede dell’anima immortale. È il tema dello splendido saggio di Gianni Baget Bozzo, teologo e storico della Chiesa (nonché politologo di acuto sguardo), che delinea una vera e propria storia della nozione di «anima», dall’età patristica segnata dalle categorie concettuali del pensiero greco-romano alla modernità secolarizzata, sottolineando specificamente le conseguenze anche politico-sociali delle trasformazioni subite da quel termine nei diversi momenti della civiltà occidentale. Oggi il discorso sulla immortalità dell’anima, così come quello sulla risurrezione della carne, sembrano inattuali anche tra i cristiani, ma al riguardo queste pagine di Baget Bozzo sono particolarmente critiche: a giudizio dell’autore l’emarginazione se non il silenzio su tali fondamentali verità di fede sono da imputare, con la predicazione, alla teologia cattolica stessa che, anziché meditare le realtà divine, preferisce in ampia sua parte inseguire seducenti mode culturali.
Dall’età patristica alla modernità
È al principio del secolo scorso che inizia la contrapposizione tra idealismo greco e realismo cristiano. Essa si è trascinata lungo tutto il novecento e ha visto nella ellenizzazione del cristianesimo la deformazione della figura di Gesù di Nazareth, che verrà sempre più considerato come un «ebreo marginale». Lo scopo originario della critica alla sorgente ellenica era il tentativo di una de-dogmatizzazione del cristianesimo, considerato come alterato dal pensiero greco, sia dal suo linguaggio filosofico che dal suo linguaggio mitico.
La posizione della Chiesa era che il messaggio cristiano fosse rivolto alle nazioni e che, quindi, la sua formulazione originaria dovesse coinvolgere i popoli verso cui era diretto. Era necessario che vi fosse una «preparazione evangelica» del mondo ellenistico e romano a cui si rivolse originariamente la fede cristiana. È da Sant’Agostino che viene l’affermazione secondo cui è stata la religione dei filosofi, e non quella dei culti o delle città, il fattore di ingresso del cristianesimo nel mondo greco e del mondo greco nel cristianesimo. È questo incontro che determina la forma del linguaggio della Chiesa che è, sin dall’inizio, un punto di fusione tra tradizione ebraica e pensiero ellenico. Per la Chiesa, questa funzione costitutiva della Tradizione, è l’evento originario da cui prende forma il messaggio cristiano.
La novità cristiana non poteva essere espressa nella sola tradizione ebraica, perché il cristianesimo nasceva dal rapporto originario della persona, nella sua singolarità, con il Cristo. Il messaggio cristiano toglieva il rapporto con il Dio unico dal riferimento solo a Israele come popolo, ma non lo includeva in nessun altro orizzonte. Il mondo in cui avvenne l’annuncio cristiano non conosceva che entità collettive, popoli e poteri a essi riferiti. Ora l’unico riferimento compatibile con questo annuncio era proprio la filosofia greca che affermava una dimensione universale aperta al singolo pensatore, una universalità in cui contava la ricerca di ciascuno.
Benedetto XVI ha ripreso molte volte il tema – da lui poi affrontato in modo sistematico nel discorso di Ratisbona – dei rapporti originari dell’annuncio cristiano con la filosofia greca e poi con il diritto romano, nei quali esisteva una predisposizione ad accettare la dimensione della persona come un elemento fondante di senso che andava oltre la differenza etnica.
La filosofia greca e il diritto romano erano forme universali; l’universalità era la dimensione del cristianesimo che poneva al centro non le etnie, ma le persone. Persona e universalità sono il punto di fusione tra cristianesimo, ellenismo e romanità.
Oltre l’ebraismo
Il pensiero greco fu una opportunità che si offrì alla Chiesa nascente per poter esprimere il grande mutamento che il cristianesimo comportava riguarda il linguaggio dell’Antico Testamento. Il pensiero greco aveva infatti inventato, con le idee platoniche e con il nous aristotelico, una dimensione immateriale, la possibilità cioè che il linguaggio potesse attingere a una realtà che era oltre l’esperienza sensibile.
Il Dio di Israele manifestava l’universalità e l’unicità di Dio. Il popolo ebraico, esiliato in Babilonia e oltre, aveva compreso che il Dio dei suoi padri e della sua terra rimaneva con lui nell’esilio ed era più potente degli altri dei. Mediante la sua esperienza di popolo, vissuta anche nella vita dei singoli, Israele aveva inteso che la potenza divina non era legata alla terra in cui si era manifestata, ma operava al di fuori degli spazi assegnati ai vari popoli; aveva capito di essere veramente l’unico popolo scelto dall’unico Dio. Il giorno della sovranità di Dio nel mondo sarebbe stato la manifestazione del carattere definitivo dell’elezione di Israele.
Ma l’annuncio cristiano era diverso: per il sacrificio di Cristo, lo Spirito Santo era sceso ad abitare i singoli credenti e l’unica Chiesa. La salvezza non era soltanto attesa nel futuro, ma era già immediata immediatamente presente nel fatto che un uomo poteva essere posseduto dallo Spirito proprio di Dio e diventare quindi «teoforo», portatore di Dio nella sua vita di persona. Il file della Rivelazione non era più mostrare l’universale potenza di Dio, ma la sua universale comunicazione: questo avveniva attraverso la negazione della potenza, cioè mediante il sacrificio di colui che i cristiani confessavano come Salvatore e perciò come Dio. Egli poteva in questa condizione, inviare lo Spirito a coloro che lo accettavano, che diventavano così eletti, scelti come persone per ricevere la pienezza di Dio.
La parola centrale della rivelazione di veniva dunque «Spirito»: ciò che accomunava Dio e gli uomini scelti da lui nella Chiesa era lo Spirito Santo, il modo e il luogo in cui avveniva la comunicazione. Ma questa e non era affidata soltanto all’escatologia degli ultimi tempi annunciata nell’antico testa dall’Antico Testamento: la resurrezione della carne. Nel cristianesimo la resurrezione finale non poteva essere vista che come il termine della comunicazione divina, già presente nella Chiesa. Se non fosse stato così, i cristiani sarebbero stati salvati solo nell’attesa, come gli ebrei, del giorno in cui si sarebbe manifestata la potenza di Dio. Come gli israeliti, avrebbero atteso la salvezza dopo la fine del mondo e, quindi, senza che la comunicazione divina producesse in loro un effetto reale permanente. Bisognava esprimere il dono divino come qualche cosa non sarebbe andato perduto con la morte, grazie una dimensione che potesse vivere la pienezza dello Spirito Santo come vita eterna.
Se non vi fosse stato questo, la salvezza cristiana sarebbe stata identica a quella ebraica. Essa sarebbe giunta, nella manifestazione della potenza di Dio, alla fine dei tempi. Le parole della salvezza, l’essere cioè redenti dal peccato attraverso la croce di Cristo Figlio di Dio e posseduti dal suo Spirito, non avrebbe significato nulla di diverso dalla speranza ebraica se la potenza dello Spirito Santo non avesse operato del cristiano oltre la morte del corpo. La vita eterna, annunciata da Gesù nel Vangelo di Giovanni, significava che lo Spirito divino concedeva ai cristiani la vita propria di Dio e dunque l’eternità.
L’esperienza del mistero
Nei primi annunci, quelli che troviamo negli Atti degli Apostoli, il termine fondamentale è quello della connessione tra la fede in Cristo salvatore e la risurrezione finale. È nella interiorizzazione del messaggio cristiano che prende forma, gradualmente, il concetto di una dimensione immateriale e immortale dell’uomo, che viene poi espressa con la parola «anima» o «spirito», che indicava nell’uomo una disposizione a entrare nello Spirito di Dio come questo aveva la capacità di entrare nell’uomo.
Concepire l’esperienza cristiana come fede, e non soltanto come speranza, era un concetto essenziale del cristianesimo. La fede, come dice la Lettera agli Ebrei, è la «sostanza delle cose sperate e la prova di quelle invisibili»; è la connessione tra l’esperienza cristiana come salvifica e il compimento della storia umana come ultimo termine della salvezza. Anche la risurrezione finale veniva così vista come compimento dell’esperienza cristiana e quindi come immersione di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio: il perfetto compimento, di cui l’umile inizio era stato la vita di Cristo sulla terra, il «Verbo fatto carne» del Vangelo di Giovanni.
Questo è il tema proposto da Benedetto XVI nella sua enciclica sulla speranza (Spe Salvi), di cui l’elemento centrale, detto con molta sobrietà, è che il termine «ipostasi» («sostanza») indichi un vero mutamento della natura umana, sia cioè un fatto ontologico in un senso singolare come quello della effusione dello Spirito Santo nello spirito dell’uomo.
L’esperienza cristiana dello Spirito è un momento fondamentale della salvezza, ne costituisce l’essenza. La stessa escatologia finale non è vista come un atto di potenza divina nel mondo, ma come le nozze di Dio con l’umanità – Sposo e sposa – come le descrive l’Apocalisse nella sua conclusione finale: l’effusione di Dio nell’umanità e dell’umanità in Dio.
La vita di fede, e quindi la vita mistica dei cristiani nel Mistero divino, è una realtà ontologica, non solo morale; è l’anticipazione di quella radicale infusione che si compie quando Dio sarà «tutto in tutti», quando Dio e l’uomo diventeranno, nella loro differenza, una ancor più radicale unità. La differenza dell’uomo da Dio vive nell’unità di Dio. Questa è l’escatologia cristiana, questa è la mistica cristiana: la vita, la fede e la preghiera dell’uomo e della donna che dicono «Credo» con il loro cuore, cioè con la dimensione profonda del loro essere.
La vita cristiana è l’esperienza che il credente fa dello Spirito Santo che vive in lui. Un elemento fondamentale dell’annuncio cristiano è la notizia dagli Atti degli Apostoli, secondo cui la Chiesa nasce con l’effusione dello Spirito Santo sulla Vergine e sugli apostoli riuniti nel cenacolo. Lo Spirito scende sotto forma di lingue di fuoco, che simboleggiano una esperienza unica e diversa, fondendo in un solo atto la personalità della persona e la pienezza della comunione, la Chiesa. La comunicazione della vita divina avviene nell’esperienza cristiana; essa è, a un tempo, esperienza della persona ed esperienza della comunione.
La mistica cristiana diviene così la forma concreta della divinizzazione dell’uomo, sperimentata dal credente come effusione dello Spirito Santo nella sua persona e nella sua vita ecclesiale. Il cristianesimo delle origini rivela la connessione dell’esperienza cristiana con la vita eterna donata dallo Spirito Santo. Esso rende spirito l’uomo e lo fa diverso da quello che era prima, capace di avvertire il cambiamento ontologico che lo Spirito ha operato in lui. È dall’esperienza dei singoli che nascono il tempo e lo spazio della Chiesa; il dono che trasforma i singoli fonda la loro unione, nello Spirito Santo, con gli altri credenti.
I primi cristiani sperimentarono la vita eterna come una dimensione da loro acquisita, la quale offriva all’esistenza un significato diverso da quello della loro esperienza sociale e personale. La vita eterna era, a un tempo, la dimensione costitutiva del credente e della fraternità con gli altri cristiani nella Chiesa.
I cristiani delle origini non venivano soltanto dagli strati più umili della società: un certo livello culturale era necessario per comprendere un messaggio così singolare. Quello che è certo è che essi divennero una realtà nell’impero romano perché erano disposti a dare la loro vita per la loro fede. La vita eterna continuava oltre la morte: di qui il significato cristiano del martirio.
Era presente, nei primi cristiani, una realtà che andava oltre la morte del corpo, una dimensione spirituale per la quale veniva facile usare il termine «anima», che in sé non indicava la vita eterna, ma solo una vita minore e residua come quella attribuita dai miti greci e romani a ciò che rimaneva dell’uomo dopo la morte. La parola «anima» divenne l’indicazione di una dimensione dell’essere umano che poteva accettare come proprio il dono dello Spirito Santo. Così il linguaggio dell’anima si impose per indicare la vita eterna dei cristiani dopo la morte.
La prima eresia cristiana
Ciò supponeva un recettore della vita divina capace di essere spirito come Dio è Spirito. Questa intuizione fu fondamentale per la concezione cristiana, per la sua autocomprensione. Non a caso la prima eresia cristiana fu lo gnosticismo. Esso può aver avuto elementi ebraici, ma sicuramente è una eresia cristiana, che distingue come bene e male, vita e morte, due mondi: quello di coloro che sperimentano di essere Dio per la loro stessa coscienza di esserlo, e quello dei «materiali», la cui anima muore. È la perfetta contraffazione del cristianesimo, che indica però, al tempo stesso, come la presenza di una dimensione ontologica di carattere spirituale fosse divenuta un pensiero interno al mondo cristiano, al punto di trasformare in una ontologia negativa l’esistenza storica e umana. Le due dimensioni del corpo e dello spirito erano pensate dagli gnostici come ontologicamente alternative: ciò mostra che il pensiero dell’anima come dimensione umana capace del divino era presente nel cristianesimo delle origini.
Per comprendere l’annuncio della divinizzazione del cristiano nello Spirito Santo c’erano due sole strade: una era quella gnostica, che vedeva nella vita divina e nella coscienza di essere divini il significato dell’evento cristiano. Essa era l’esaltazione dell’elemento spirituale presente nel corpo umano, pensato però come realtà diversa e apposta a quella del corpo.
L’annuncio della divinizzazione dell’uomo era così centrale, nel pensiero cristiano, che lo gnosticismo sacrificò l’umanità dell’uomo interpretando la divinizzazione non come dono dello Spirito, ma come autocoscienza spirituale dell’uomo, della sua identità con il divino. Avveniva così di fatto, nell’eresia gnostica, la rottura con l’Antico Testamento, cioè con il Dio uno, creatore e provvidente.
Il principio dello gnosticismo era la dualità espressa dalle varie coppie di eoni, entità immateriali che pre-esistono alla creazione e che, con il loro contrasto, hanno determinato la decadenza di un eone divino nella materia. La redenzione, in questa prospettiva, consiste nel reintegrare negli eoni immateriali l’elemento divino caduto nella materia, cancellando così il mondo visibile. Quando tutti gli eoni divini saranno liberati, la fine del mondo materiale avverrà di colpo. Il compito degli gnostici è quello di ricordarsi della loro origine divina e quindi di autoredimersi con la propria autocoscienza. Il pensarsi divini degli gnostici scioglie il mondo materiale nel nulla.
La strada alternativa allo gnosticismo venne al pensiero cristiano dal suo incontro con la filosofia greca e con la sua concezione di un mondo ordinato, che aveva il suo principio in un pensiero immanente alla realtà e permetteva alla mente umana di comprendere il mondo. La realtà era pensabile perché ordinata, un identico essere si declinava in tutti gli esistenti come ordine.
La filosofia greca e il diritto romano esprimevano questo concetto del mondo come ordine e rappresentavano perciò una via al cristianesimo, in cui il Dio dell’Antico Testamento appariva come il fondamento della realtà e il pensiero ordinatore della natura: la natura cosmica diveniva creazione. La filosofia greca e il diritto romano offrirono al cristianesimo il linguaggio per esprimere l’unità e l’unicità di Dio, non nell’elezione di un solo popolo, ma nella fondazione di un ordine della natura e nell’offerta di salvezza a tutta l’umanità.
Fu così possibile al cristianesimo combattere la teologia gnostica e creare un linguaggio in cui l’unità del pensiero e quella del mondo diventavano il segno dell’unità e dell’unicità di Dio.
Rimaneva aperto il problema di come proporre un linguaggio in cui fosse espressa sia la congiunzione con il pensiero greco che la novità della vita divina donata all’uomo dallo Spirito Santo.
La reazione della Chiesa allo gnosticismo fu quella di riaffermare l’unità e l’unicità di Dio creatore e provvidente. Lo fece contro Marcione, che introdusse nella Chiesa il pensiero gnostico negando la Bibbia ebraica e tutto quello che fosse simile a essa nel Nuovo Testamento, ed escludendo così ciò che in esso parlava del Dio creatore e provvidente. La formula con cui Ireneo tradusse la novità cristiana fu quella del Dio che «si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio».
L’anima
Fu dunque la filosofia greca a offrire al cristianesimo una strada alternativa a quella proposta dallo gnosticismo. Occorreva accettare la sfida del pensiero platonico e aristotelico evocando una dimensione capace di ricevere la vita cristiana nel tempo come vita eterna e di andare oltre la morte corporea. Bisognava stabilire una capacità di Dio implicita nell’uomo. Se si ricorse al termine «anima» per seguire il linguaggio comune, ciò che con essa veniva pensato era una traccia di Dio nell’uomo, qualche cosa che rendesse conto dell’uomo immagine di Dio di cui parla il secondo capitolo della Genesi. Questa traccia era misteriosa come la grazia, ma indicava che tutta l’umanità era chiamata a partecipare alla vita divina perché conteneva già quella «impronta» di Dio, chiamata «anima», che era speculare al mistero divino, ne sentiva la mancanza e ne subiva il fascino.
Occorreva, come nel Cristo, che la dimensione divina fosse connessa con il corpo e che la vita eterna divenisse esperienza in una realtà che rimaneva nel corpo e lo animava. Al tempo stesso, però, la vita eterna doveva essere una dimensione interiore che viveva nel corpo, ma anche lo trascendeva e rendeva ogni uomo e ogni donna capaci di Dio, in una realtà che andava oltre l’esperienza della morte.
Tra l’ebraismo e lo gnosticismo, tra una risurrezione della carne intesa in modo terreno e politico come potenza del Dio di Israele nella realtà del mondo e il dissolvimento dell’uomo nella conoscenza del suo essere divino, occorreva esprimere la realtà dell’anima. La vita cristiana non poteva essere che un et-et, secondo la forma propria del cattolicesimo: mantenere la vita divina nel corpo attraverso l’anima nel tempo storico, ma in modo che l’anima vivesse, nel tempo e oltre il tempo, l’eterno. Era necessario intendere la risurrezione della carne come la piena realizzazione dell’unità tra divino e umano in modo che l’unità divina accogliesse in sé le differenze umane.
L’ et-et era possibile solo se tra il corpo e lo Spirito Santo vi era una dimensione capace di ricevere lo Spirito e di conservarlo per sempre oltre la morte. Ciò comportava l’indicazione di una dimensione potenzialmente perpetua nell’uomo, una potenzialità che la vita divina rendeva attuale. Ciò che il pensiero cristiano stabilì fu espresso nel termine «anima», che assunse un significato altro dalla sua origine mitica e descrisse la sintesi che superava l’ebraismo e lo gnosticismo e conduceva al cristianesimo. Il pensiero dell’anima, dunque, permette il mantenimento dell’Antico Testamento ed esclude il mito gnostico; per questo è essenziale al cristianesimo.
La perdita dell’anima
Nei secoli cristiani la traccia divina, l’anima, venne assorbita nella dimensione mistica del cristianesimo: la contemplazione del divino e la carità nell’umano costruirono la forma reale della civiltà che sopravvisse alla fine dell’impero romano e fece nascere, dalle invasioni barbariche, la cristianità.
L’anima spirituale dell’uomo scomparve dietro la grazia, diventò semplicemente una evidenza presupposta. Essa non fu, come tale, oggetto di pensiero indipendentemente dalla sua partecipazione alla vita divina. Ma il pensiero umano continuava, e questa dimensione interiore, che era stata interpretata come immagine di Dio nell’uomo dal pensiero patristico e medievale, cercava altre spiegazioni che non fossero la fede e la mistica cristiane. Così avvenne, con la filosofia di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Ockham, la negazione del logos divino che presiedeva alla creazione e si compiva nella divinizzazione dell’uomo.
Il concetto di un Dio come Verbo che era la forma del mondo, il suo archetipo, permetteva di pensare l’anima come immagine del suo modello divino in ogni persona. Il progetto della persona era divino in Dio e si realizzava nella creazione mediante l’infusione dell’anima nel corpo umano.
Il termine «persona» è il modo più adeguato per indicare l’unità di corpo e spirito nell’uomo, perché permette di pensare l’immagine di Dio come presente nell’anima e nel corpo. Ma la teologia francescana tolse l’idea della verità del creato in Dio come principio, forma e fine del mondo; pensò Dio come volontà e quindi come irrazionale rispetto all’intelletto umano: Dio si esprimeva nei suoi decreti, non nel suo logos.
Cadde così la comprensione tradizionale della vita cristiana, per cui la persona umana tende, come suo fine, al suo archetipo divino presente nell’essenza divina. Vi era, nei teologi francescani, un elemento incerto, che condusse alla crisi del pensiero cristiano così come elaborato dalla patristica e dalla teologia medievale. Il termine «verità» venne tolto a Dio e assegnato solo all’uomo: l’uomo era l’archetipo di sé stesso.
Ciò appare chiaro nell’umanesimo italiano, in cui la dimensione divina si esprime nella bellezza del corpo e delle città. Il mondo classico sostituisce il pensiero cristiano perché viene concepito, diversamente da quello che era, come ciò che fondava l’uomo come tipo ideale dell’uomo.
La Riforma protestante si basa anch’essa sul concetto che Dio è volontà, che concede e nega la grazia a chi vuole. La fede è data all’uomo in quanto peccatore e non ne cambia la condizione: la dimensione divinizzante della grazia è negata.
Così, in Occidente, si perde il tema della divinizzazione del cristiano, proprio della Chiesa universale; Dio e l’uomo rimangono ontologicamente estranei e quindi la vita mistica viene considerata come un’aberrazione, proprio perché mette l’uomo sul medesimo piano di Dio nella relazione fondata dalla grazia santificante.
Ma vi è anche un altro cambiamento: quello per cui la fede non è un rapporto con il Cristo, ma un rapporto con una proposizione (la giustificazione per sola fede). Per la Chiesa universale occidentale e orientale la fede era un rapporto con lo Spirito Santo che veniva ad abitare nell’uomo e lo rendeva parte del Corpo di Cristo che è la Chiesa.
Né il Mistero né la mistica compaiono nella Riforma protestante, ma vengono da essa radicalmente negati. Dalla Riforma nasce quella che in seguito sarà chiamata «ideologia», cioè una proposizione posta a fondamento di una visione del mondo. L’umanesimo italiano rimaneva ancora all’interno della visione cattolica, anche se non ne esprimeva più il significato. Ma con la Riforma nasce il mondo moderno – sia lo Stato moderno sia il capitalismo – e viene così compiuta la scissione della civiltà occidentale dalla Chiesa universale, d’Occidente e d’Oriente.
La dottrina dell’anima spirituale e immortale non viene più tematizzata dalla Riforma perché data per ovvia, ma il fatto che non vi fossero più il Mistero e la mistica rendeva il discorso sull’anima inoperante anche a livello filosofico e culturale. Con la Riforma inizia la morte del pensiero sull’anima proprio della tradizione cristiana.
Il passo successivo è quello di Cartesio, che riduce l’anima alla mente e quindi alla ragione. L’immortalità dell’anima viene dedotta dall’essere ideale di Dio ed è pensata come concetto della mente, senza che vi sia alcun accenno all’esperienza interiore dell’anima. Cade il concetto stesso di realtà, perché è la mente, nella sua autocomprensione, a trovare un contenuto della realtà senza avere rapporto con essa: la mente è un circuito interno chiuso. Il ‘600 è ancora un secolo cristiano, ma è l’ultimo secolo della cristianità.
Da questo momento non nasceranno, fuori dalle Chiese tradizionali, non toccate dalla Riforma, fenomeni di vita mistica se non in forme ridotte e come espressione del sentimento religioso (per esempio: il pietismo tedesco, il metodismo inglese, il quaccherismo).
La divinizzazione del cristiano è così tolta alla cultura occidentale e anche nel mondo cattolico produce quel fenomeno definito «il crepuscolo della mistica». Ma con san Giovanni della Croce il linguaggio mistico cattolico aveva trovato la sua forma più alta, in cui confluivano tutte le tradizioni e in cui assumeva forma pienamente ortodossa la grande tradizione mistica renano-fiamminga.
Nel `700 avviene la scristianizzazione definitiva del pensiero europeo, che raggiunge, con Jean-Jacques Rousseau, l’idea della città totale, della democrazia possessiva. L’anima e la persona hanno cessato di essere oggetto del pensiero; al loro posto sorge la democrazia come dissoluzione della persona nella totalità sociale. L’ideologia raggiunge la sua piena forma nel pensiero della democrazia totale, che, realizzandosi con i giacobini nella seconda fase della Rivoluzione francese, si propone come obiettivo quello di distruggere la Chiesa.
Nell’800 e nel ‘900 la storia viene pensata come ragione assoluta in atto; ciò trova la sua forma teorica nella filosofia hegeliana e la sua risoluzione pratica nella filosofia di Marx.
Ora conosciamo le rovine di quella storia. Ma ne nasce un’altra, in cui il concetto base è l’individuo, divenuto anch’esso ideologia, una forma totale che si applica al singolo come genere assoluto: lo definisce dunque a priori, al di fuori della sua concretezza di spirito e di carne, del suo desiderio profondo e del suo reale bisogno. L’individuo è un concetto astratto che definisce l’uomo, ancora una volta, come categoria generale, ma che realizza al tempo stesso la separazione dei singoli dagli altri singoli in termini di etnia, di cultura, di sesso, di storia.
L’individualismo dissolve il singolo nei gruppi; non riesce ad afferrarlo, appunto, come singolarità. Ma non riesce neanche più a definire una umanità comune, la comunità umana. Esso costituisce quindi la forma perfetta della conflittualità tra singoli, tutti pensati nel comune genere di individuo, ma realizzati in gruppi diversi e opposti, definiti dalla loro contrapposizione alla maggioranza come categoria oppressiva e agli altri gruppi diversi dal proprio. Cade il concetto di comunità e quindi la forma ideale della società capace di far vivere, nel suo seno, i diversi gruppi. La negazione della maggioranza come valore e l’affermazione della minoranza come identità creano la forma perfetta del conflitto civile.
L’esperienza dell’io
Si è pensato che la separazione tra cristianesimo e Occidente fosse stata causata dal sorgere dell’ateismo, un fenomeno esistente in tutte le forme del moderno e del postmoderno. Ma il problema fondamentale non è tanto la rimozione del concetto di Dio, che può essere pensato in forma generale e non significativa, ma la rimozione di ciò che costituisce il suo referente nella persona, dato, nella tradizione cristiana, dall’anima.
Ciò che il cristianesimo aveva portato nel mondo era il concetto di un Dio Mistero inaccessibile a ogni dimensione meramente concettuale, ma rivelato nel Cristo crocifisso come dono di Dio stesso all’uomo nella forma del puro amore. Ciò comportava che l’uomo potesse elevarsi al livello di Dio, tanto da poter diventare partecipe di tale amore e condividere, così, la vita eterna in una realtà propria dell’uomo, capace di vivere oltre la morte del corpo. L’annuncio cristiano era che l’uomo fosse spirito, corpo e anima insieme, ma fosse nell’anima capace di ricevere l’eternità divina oltre il tempo, lo spazio e la morte.
Il cristianesimo portava così a compimento le religioni antiche, che avevano cercato, sin dall’inizio, di condividere la vita divina, di essere non solo oggetto dell’attenzione degli dei, ma partecipi di essi. L’uomo ha potuto esprimere sé stesso, la sua realtà di spirito, nella nostalgia del divino come patria da cui proveniva e per cui era fatto.
Lo spirito comportava il riferimento al cosmo e alla vita materiale, ma indicava nell’uomo anche una dimensione rivolta al divino, che provenisse da lui e fosse una sua immagine riflessa nell’uomo.
Le trasformazioni dell’anima cristiana in bellezza, fede giustificante, mente, Stato, storia, rivoluzione sono un’astrazione, riguardano cioè una precisa idea e fondano su di essa il loro sviluppo pratico. L’anima cristiana è invece una esperienza: l’esperienza di ciò che diciamo «io», l’esperienza originaria che il singolo fa di sé stesso come «io». Ciò non è esprimibile in un concetto: è l’io che guarda sé stesso, si sperimenta ma non si esprime in parole, non si possiede come linguaggio.
Da quando esiste, l’uomo ha avuto esperienza di sé senza dirlo in parole e ha prodotto il linguaggio solo per vivere nel mondo. Nel linguaggio l’io esce dall’io e si confronta con il mondo.
Solo con il cristianesimo l’io diventa linguaggio. Che cosa è, concettualmente, Gesù se non una esposizione radicale dell’io, divenuto chiave del linguaggio in riferimento a sé stesso? Gesù usa un linguaggio in cui l’io si dice principio del reale e lo riferisce a sé. Il reale dell’uomo sono le parole e Gesù si presenta come la Parola. Ciò non conduce a un impero, ma a una croce, perché l’esperienza dell’io contraddice il pensiero sacro e il pensiero politico, che sono oggetto del linguaggio e fondano il mondo come esperienza collettiva.
Nei Sinottici appare la potenza dell’io di Gesù, che cambia la Torah e fa di sé stesso la Parola del Dio di Israele. Ma è in Giovanni che Gesù riprende il linguaggio di Dio. Il primo io ad apparire nella storia umana è il Dio del roveto ardente, che dice a Mosè: «Io sono colui che è». Non afferma una identità, ma espone una presenza. Ed è una presenza nel mondo sociale e politico, perché si definisce come ricordo e come memoria: di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
Nel Vangelo di Giovanni Gesù riprende questa parola definendosi come «Io sono». Così egli dà nome a una esperienza indicibile, unica e universale nell’uomo: quella dell’io, che è il linguaggio con cui l’uomo esprime ciò che non conosce, cioè sé stesso. E, con la medesima parola, Gesù afferma la sua divinità. L’io non si conosce mediante parole, ma come viva e primaria esperienza. Il non poter essere detto è caratteristica sia della persona divina che della persona umana. Non a caso il termine «persona» è stato scelto da Tertulliano per indicare le ineffabili entità trinitarie che comunicano con il cristiano e lo fanno una sola cosa con loro, secondo l’espressione del Vangelo di Giovanni.
Così è stata intesa l’anima cristiana: come esperienza dell’io che l’uomo fa senza saperlo dire e che solo dal Cristo riceve la parola con cui indicare l’ineffabilità sia dell’io umano che dell’io divino. Ciò ha permesso, nel cristianesimo, l’esperienza di Dio e dell’io insieme, mai separatamente.
«Anima» è sicuramente un termine mitico; ma è proprio il mito che, da sempre, ha percorso le strade dell’ineffabile. In tutte le religioni si giunge alla singolarità del dio, anche se visto come potenza cosmica. Il dio del mito si identifica con la sua funzione nel mondo; nondimeno, vi è qualche cosa in lui che va oltre il suo compito nell’ordine cosmico e lo rivolge verso l’uomo. Questa dimensione viene espressa dalle religioni attraverso il linguaggio del simbolo, ed è per questo che il cristianesimo ha assunto il linguaggio del mito per indicare una ben diversa realtà. Ha permesso così l’identificazione del nome di Dio con un termine universalmente accettato, ma cambiandone il significato.
L’esperienza dell’anima
Gesù si rivolge per la prima volta alla scelta del singolo come decisiva: la fede è un atto che solo il singolo può compiere. Che ciò avvenga in comunione fa parte del cristianesimo, ma non toglie che sia il singolo, di fronte alla comunità, a dire: «Io credo». Nella fede il singolo diventa attore e autore, e il suo atto lo inserisce nella comunione che accoglie la sua scelta. I due aspetti – l’io e la comunione – non sono separabili, ma sono distinti, tanto che l’io può sempre separarsi dalla comunione. Nel darsi a Cristo il singolo apprende che il suo io, in quanto io, può avere la vita eterna e quindi dire sé stesso in Dio.
Ma, perché ciò sia possibile, è necessario che il singolo abbia in sé la capacità di scegliere il divino, una domanda di significato che vada oltre la sua dimensione materiale. La vita eterna annunciata dal cristianesimo è la risposta a una domanda che nasce dalla dimensione dell’uomo rivolta verso l’eterno, ne avverte la presenza e ne soffre la mancanza. L’uomo è una dimensione del mondo e, allo stesso tempo, appartiene a una realtà che è la sua patria e si manifesta come desiderio di eternità. Inclusa nel mondo sensibile, l’anima aspira a un trascendimento di sé, a un andare oltre, ad accettare il senso della vita solo se esso ha un significato che va oltre il tempo.
Non si spiega, la condizione umana, senza accettare questa intrinseca dualità: il suo essere cosa della realtà fisica e biologica e il portare in sé una immagine di eternità. L’uomo non attinge all’eterno con i sensi, ma lo cerca nel fondo di sé, diverso dalla materia cosmica e quindi appartenente a un’altra realtà. Il tempo è a lui immanente e l’eterno lo attrae oltre il tempo.
Quando il moderno ha voluto unificare il mondo nella dimensione corporea ha prodotto una realtà tragica, perché ha pensato che la storia dovesse andare oltre sé stessa rimanendo storia, unificando tempo ed eternità. Se fosse così, la tensione umana tra il passato e il futuro, sospesa nel presente che continuamente fugge, sarebbe un non senso e non la vita.
La realtà dell’anima non si impone oggi come un’evidenza sociale fondata su prove razionali, ma si può raggiungere mediante la comprensione dell’esperienza umana nella storia. Non è un caso che la vita dell’uomo sia stata ordinata nelle religioni, perché solo una forza che viene dall’alto ha potuto vincere il sentimento della debolezza umana. La persona non raggiunge sicurezza se non ottiene un significato.
Questo significato ha avuto parole solo con la fede cristiana, la quale ha rivelato che al desiderio dell’uomo di essere dio corrisponde il desiderio di Dio di essere uomo. Solo il cristianesimo ha dato all’uomo un così alto significato, il riferimento di un Dio-amore che ha divinamente desiderio dell’uomo come l’uomo ha umanamente desiderio di Dio. Solo nel Dio-amore l’uomo si può conoscere come desiderio dell’eterno e quindi come portatore di una possibilità di andare oltre il tempo. Così il cristianesimo definisce l’uomo e fa della persona l’immagine di Dio, che è il fondamento della immortalità dell’anima.
La resurrezione della carne
L’anima immortale è talmente intrinseca al cristianesimo che, fino agli anni Sessanta del secolo scorso, non si era mai pensato che fosse un apporto esterno a esso, ma che fosse chiara nella Tradizione e nel linguaggio cristiano sin dalle origini. Ma dopo quegli anni l’anima incominciò a uscire dalla teologia e dalla predicazione e a esistere soltanto nella fede dei semplici. La causa va cercata nel fatto che le acque della storia protestante si erano unite a quelle del pensiero cattolico.
Nel pensiero protestante la Scrittura è l’unica fonte della Rivelazione. Nell’Antico Testamento non c’è traccia dell’anima, salvo che nel libro della Sapienza, in cui viene accolta ed espressa la vita post-mortale delle anime. Nel Nuovo Testamento l’affermazione più marcata è quella della risurrezione della carne: la risurrezione di Gesù fonda la risurrezione dei cristiani e degli uomini. Qualche cenno all’anima si fa quando, in Luca, Gesù dice al buon ladrone: «Oggi sarai con me in paradiso» (il che non significava, evidentemente, la risurrezione del corpo); quando Paolo dice di non sapere se fosse stato assunto al terzo cielo, nel corpo o fuori dal corpo; infine, quando, nella Seconda lettera di Pietro, si parla della discesa di Gesù agli «inferi» prima della risurrezione.
Ma questi testi erano poca cosa di fronte a quelli che affermavano la risurrezione della carne: quindi il pensiero protestante finì per non accogliere l’anima come insegnata dalla Scrittura. In questo modo il protestantesimo costituì la prima e più radicale de-ellenizzazione del cristianesimo, marginalizzando il tema del Logos divino annunciato dal Vangelo di Giovanni.
Il divino e l’umano erano pensati, dalla teologia protestante, come un aut aut e, quindi, non vi era un termine medio tra Dio e l’uomo. La tradizione cattolica afferma invece l’esistenza di uno spirito non divino né umano: gli angeli.
Per la Chiesa cattolica il Logos divino si continua nel logos umano e la persona è immagine di Dio. Perciò si può pensare a realtà intermedie, come gli angeli, essenziali per comprendere la «ipostasi» del male e Satana come sua realizzazione. Il Logos può esprimersi in molte forme, e poiché sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento gli angeli sono presenti nella storia della Rivelazione, essi possono essere rappresentati come realtà intermedia tra la creazione materiale e Dio, quindi come capaci di azione anche nei rapporti con il mondo umano.
L’angelo indica una figura spirituale che non è divina e non è umana: può così aprire la strada alla concezione di un’anima umana spirituale, una realtà immateriale che non conosce la dissoluzione del corpo, ma può fare il bene e il male ed è la prima espressione della libertà. L’anima è pensata dalla Chiesa cattolica sul modello angelico, come non divina e non materiale, come rivolta a Dio e capace di essere presente in un corpo.
Ma nel pensiero protestante, in cui non è contemplata la divinizzazione dell’uomo e quindi la comunione ontologica tra divino e umano, il concetto di una realtà intermedia non può che essere vissuto come un neopaganesimo, come il ritorno degli dei, quindi come negazione del sola fide, che è l’essenza del protestantesimo.
È in conseguenza della natura di opposizione tra divino e umano che non può essere pensata una figura non divina né umana. Non rimane, alla cultura protestante, altra soluzione che quella di attenersi soltanto alla escatologia della risurrezione della carne.
Nella concezione cattolica essa è il ritorno della storia umana in Dio e di Dio nella storia umana; è quindi la piena realizzazione dell’et-et cattolico, che comprende gli angeli e, a maggior ragione, le anime.
Le anime presenti in Dio ritrovano, nella risurrezione, il loro posto nella storia, vista come espressione dell’essenza divina, e ricevono quello che Paolo chiama il «corpo glorioso», cioè un corpo interamente assunto nella gloria di Dio: che è l’essenza divina nella sua irradiazione e manifestazione. L’anima ritrova, nel corpo di gloria sorto dalla effusione dell’essenza divina nella storia umana, la giustificazione e, al tempo stesso, il giudizio divino sulla sua realtà storica.
Ma che cosa sia il corpo glorioso non possiamo immaginarlo; e Dante – il solo che abbia tentato di farlo – ci ha dato l’immagine delle figure di luce in cui compare un volto. Il Poeta parla delle anime, ma forse, nella visione finale di tutto il Paradiso, c’è una prefigurazione del corpo di gloria.
Questo rimane, quindi, il punto terminale, e il più difficile a esprimersi in linguaggio umano, di tutta la Rivelazione cristiana. E, infatti, coloro che vedono come sola realtà escatologica la risurrezione della carne non sono capaci di descrivere in alcun modo il tema delle nozze di Dio con l’umanità e la nuova creazione vivente nella realtà di tali nozze. Il pensiero umano può considerare la vita divina dell’anima nel corpo, può entrare in contatto con gli angeli e con le anime, ma non può in alcun modo immaginare la realtà dei corpi gloriosi.
Nella tradizione cattolica la vita divina e quella umana sono concepite come relazione e non come contrapposizione. Per questo la Chiesa cattolica ha pensato, da sempre, la continuità tra la vita delle anime sulla terra, nel corpo, e la vita delle anime nel Regno di Dio, senza corpo. Angelo e anima fanno parte di quelle realtà create e immateriali che uniscono la creazione al Mistero divino. La morte non può creare discontinuità tra la vita divino-umana nel tempo storico e la vita divino-umana nel tempo oltre la morte.
L’oscuramento del cattolicesimo nel pensiero cattolico ha fatto perdere la misteriosa continuità che esiste tra il creato e l’increato nel Mistero, nel Logos e nell’Amore divino.
Il silenzio sull’anima
Le questioni oggi poste al pensiero cattolico riguardo all’anima nascono principalmente dalle scienze della natura, in particolare dalla biologia.
La prima questione è come l’anima venga infusa nel corpo umano, sia in riferimento al caso del singolo che a quello dell’evoluzione della specie. C’è una storia, nel corpo dell’uomo, che lo prepara alla infusione dell’anima. Ma questo non nega il carattere umano dell’embrione, perché l’immagine della persona, presente nell’essenza divina come modello, è antecedente alla formazione del corpo umano. L’embrione è destinato ad accogliere l’anima quando è ancora embrione, ed è appunto l’anima a dare valore all’embrione umano dal momento del suo concepimento. Nell’evoluzione della specie l’anima è data agli uomini quando sono in grado di riceverla e manifestano i segni del superamento radicale della vita animale.
La seconda questione è posta da chi vuole dimostrare che il cervello possa spiegare tutte le funzioni della mente. È questo il grande sogno del laicismo del nostro tempo. Ma ciò nulla toglierebbe al fatto che la storia umana mostra che l’uomo non è solo mente, e che la stessa attività della mente si muove sotto l’impulso del desiderio e dell’intuizione, cioè delle dimensioni dell’anima che sfuggono alla ragione. Ma non è l’evoluzionismo né sono le scienze biologiche ad aver prodotto il silenzio sull’anima: esso è una decisione interna alla teologia cristiana, che cercava di ripensare il cristianesimo nell’ambito della secolarizzazione, e quindi di togliere il punto in cui essa sfuggiva al dominio di chi voleva usare la ragione per estinguere il desiderio, l’impulso, la creatività, l’intuizione: le dimensioni che spingono lo spirito dell’uomo a trascendersi e a modificare il mondo in funzione di sé, ad andare oltre l’esistente per esplorare il possibile. La fantasia del possibile è indefinibile, perché trascende ciò che attualmente esiste.
Una corrente teologica dominante si è affiancata al moderno nella distruzione della metafisica o nella comprensione nichilistica della metafisica propria della filosofia heideggeriana. È all’interno della teologia cristiana che è nata la spinta verso la secolarizzazione dell’anima, verso il silenzio su di essa per ridurre l’uomo soltanto al sociale.
Questo è stato il modo con cui i teologi hanno voluto afferrare la gnosi del marxismo, che poneva il possibile come negazione del reale all’interno della concezione dialettica della mente e della storia.
L’anima non è caduta dinanzi a una sfida esterna, ma è stata censurata da una scelta interna alla teologia. La metafisica è stata privata della sua autorità dalla comunità teologica, che ha deciso di spostare la teologia da san Tommaso verso lidi ignoti, la cui rotta era data dalla rivoluzione, vista come incarnazione storica della escatologia cristiana.
L’anima è stata uccisa teologicamente, non scientificamente. La totalità del cervello e la totalità della evoluzione nascono come sfida quando l’anima è già scomparsa dal pensiero accademico cristiano.
Il silenzio sull’anima è divenuto una direttiva anche della predicazione, che parla della risurrezione della carne come un mito detto in linguaggio mitico. Ma la spiritualità e la immortalità dell’anima sono l’unica via per indicare che vi è un’attesa del corpo anche oltre la morte e che l’anima è appunto questa attesa, a cui giunge come risposta il vertice del Mistero: la divinizzazione della storia umana nel Mistero divino, la teandria compiuta.
Il termine ultimo della effusione della Trinità oltre sé stessa non può essere pensato se non esiste una realtà che fondi il legame, l’unione tra la vita divina nel tempo, donata all’uomo nella fede, e la vita divina oltre il tempo, donata dalla visione dell’essenza di Dio: come insegna san Tommaso, che rimane il vertice della espressione teologica della fede cattolica, da cui ci si può sempre discostare, ma a cui occorre sempre riferirsi.
Conclusione
La fede cattolica crede nell’anima spirituale e immortale come fondamento della possibilità della divinizzazione dell’uomo. La storia umana è storia dell’anima, storia del continuo autotrascendimento che l’uomo fa di sé stesso nelle sue tecniche e nei suoi concetti. La storia avvolge nella forma delle religioni il percorso umano verso la manifestazione di sé stesso nel mondo, facendo del mondo il riferimento dell’io.
Non si può comprendere l’unità della evoluzione umana né la sua storia se non a partire da questa dimensione profonda, che fa delle azioni umane realtà comunicanti oltre il tempo e lo spazio. Che senso ha Dio, se l’uomo non si eterna? A che serve pensare l’eterno senza poterlo divenire? Che significato ha l’uomo, se Dio non è il suo significato? Queste sono le domande che emergono in questo tempo post-storico, che ha perso la storia come sua realizzazione e si è trovato a essere causa nel mondo fisico e biologico senza aver pensato che questo fosse il suo destino.
L’uomo si è ritrovato come l’anima del mondo, mentre pensava di fare storia a sé stesso e riteneva che la phusis e il bios non fossero coinvolti dal suo divenire. Lo gnosticismo del moderno aveva fatto dell’uomo l’idea di sé stesso, che si realizza nella storia e nelle istituzioni, ma ha invece scoperto che il mondo materiale era co-essenziale all’uomo e che la sua storia si incorporava nella terra e nella vita.
Essersi pensato come spirito realizzato nella storia ha finito per provare che la storia era senza spirito e che lo spirito umano si realizzava nella materia e nella vita.
Il cristianesimo ha sempre creduto nell’anima e nel corpo, ha pensato in termini binari, in cui la diversità esisteva nella complementarità e nella unione.
L’anima è il pensiero della fede che spiega l’unione dello spirituale e del materiale. È il presagio e la domanda della unione dell’umano e del divino. Questa è la via per creare il linguaggio teologico e per comprendere il supremo mistero della risurrezione della carne.
Gianni Baget Bozzo