Cosa contraddistingue l’uomo di Stato dall’ uomo di potere? La risposta a questo quesito implica necessariamente una presa di coscienza rispetto al contesto politico contemporaneo ed alla storia repubblicana del nostro Paese. Lo statista è colui che avverte le tensioni sociali e le istanze del popolo risolvendole in un’azione di governo delle istituzioni di più ampio respiro, ponendosi oltre l’immediatezza della prassi quotidiana e facendosi spesso carico del peso delle proprie scelte di fronte agli interessi ed ai ricatti di parte: nazionali ed internazionali. Uomini politici di tale statura sono una rarità e sono spesso figure tragiche odiate od incomprese nel tempo in cui operano a cui la storia, però, offre un posto nella memoria dei popoli. Uno di questi fu Aldo Moro, il presidente del Consiglio che venne assassinato dalle Brigate Rosse negli anni di piombo della Guerra Fredda tra Occidente e l’Unione Sovietica.
Quell’omicidio politico fu una profonda ferita inflitta ad una giovane democrazia italiana, i cui moventi del delitto furono molteplici e non solo frutto di un attacco sovversivo alle nostre istituzioni. Don Gianni descrisse la dolorosa vicenda in modo puntuale nella sua analisi che viene di seguito proposta nell’articolo inviato ad Ideazione nel 1998. Ed è durante lo svolgersi di questo dramma che emergono le contraddizioni di una democrazia italiana ufficialmente difesa e paventata come libera, ma di fatto controllata sin dai suoi natali nell’alveo del Patto di Yalta.
Aldo Moro si distinse come l’esponente democristiano del compromesso storico con il Partito Comunista e lo fece poiché avvertì che il terreno solido del comunismo italiano stava franando alla sua sinistra in una deriva extraparlamentare che intendeva realizzare la Rivoluzione della classe operaia minando le istituzioni democratiche. L’intesa con il PCI era, dunque, dettata dal ricomporre la contesa politica delle masse nel perimetro dello Stato, ma se questo ebbe un senso in ambito nazionale, considerato il fatto che il nostro Paese aveva la rappresentanza comunista più importante d’Occidente, a livello internazionale, tale progetto fu in contrasto con una Guerra Fredda che non accettava mediazioni ma solo contrapposizioni.
Aldo Moro poteva essere salvato? Forse sì secondo i socialisti di Craxi ai quali lo stesso don Gianni si avvicinò proprio in quel periodo per unirsi alla linea morbida del dialogo con le Brigate Rosse contrapposta al muro contro muro di quella di Andreotti e Cossiga e dello stesso PCI; ma la linea dura prevalse.
L’omicidio Moro fu un fatto che plasmò la politica italiana, bloccò il compromesso storico, gli anni di piombo continuarono, ma la gestione di questa crisi istituzionale creò uno spazio politico nuovo tra il Pci e la Democrazia Cristiana in cui il Psi di Craxi si inserì come alternativa, come fuga di libertà dal comunismo preferendo Proudhon a Marx a sinistra e proponendosi come spina nel fianco del confessionalismo democristiano che delineava l’unità del voto cattolico.
In questo contesto don Gianni fu messaggero di un impegno politico cristiano sotto le insegne del PSI che rompeva gli schemi ideologici di un Cristianesimo militante. La sua fu una scelta di libertà, dettata dalla tensione mistica e spirituale di intendere la politica come il terreno del confronto nella storia dei popoli e dell’umanità, anziché essere una mera arte di esercizio della gestione della “cosa pubblica”. E questo suo approccio lo portò a meglio definire i protagonisti della politica distinti tra leader politici e politicanti, tra uomini di Stato e uomini di potere, come don Gianni spiega nel suo editoriale, identificando nella figura di Giulio Andreotti il politico espressione del potere del Vaticano all’interno delle istituzioni italiane.
Aldo Moro fu lo statista che volle difendere l’integrità dello Stato dai retaggi utopitici e sovversivi sorti nel brodo culturale e rivoluzionario del ’68, che si fece carico di scelte coraggiose anche in ambito economico (altro movente?), affermando il primato della politica contro il sistema bancocratico – un unicum nella storia repubblicana del nostro Paese – attraverso l’emissione da parte dello Stato della banconota da cinquecento lire finalizzata al finanziamento della spesa pubblica.
Giulio Andreotti fu, invece, il politico di potere dalla raffinata intelligenza, maestro nella gestione dei rapporti di forza sia a livello nazionale che internazionale, la cui descrizione si potrebbe riassumere nella frase del diplomatico francese Maurice de Tayllerand a cui gli venne impropriamente attribuita la paternità:”il potere logora chi non ce l’ha”. Egli fu un uomo delle istituzioni per tutte le stagioni in grado di gestire un potere capillare.
Don Gianni in questo articolo offre spunti di riflessione formativi per il lettore, poiché descrive due figure chiave nella storia delle nostre istituzioni le cui concezioni politiche delineano due differenti modus operandi sui quali l’elettore italiano dovrebbe riflettere prima di esercitare il proprio diritto di voto. Buona lettura (Alessandro Gianmoena)
Aldo Moro e Giulio Andreotti: due vite parallele.
Le due vite comunicano all’inizio in Giovanbattista Montini, assistente della Fuci: ed ambedue saranno esponenti nella vita politica italiana della linea ecclesiastica del loro maestro, divenuto Paolo VI.
Nessuno dei due viene dalla tradizione popolare democratico cristiana: essi vi sono scesi dai vertici dell’Azione Cattolica. Ambedue erano stati presidenti della associazione patrocinata da Montini, la Federazione Universitaria cattolica italiana, la Fuci. Ed in questa loro comune matrice sta la base del combinarsi e del contrapporsi delle loro carriere.
Aldo Moro traeva la sua scelta politica da un pensiero sulla società e sulla storia. Nella cultura di Moro non stava originariamente un partito democratico cristiano. Le sue dispense universitarie, pubblicate dopo la sua morte, ma scritte prima della fine del fascismo, hanno già una idea drammatica della crisi dello Stato. Vi è in Moro un pessimismo originario che è espresso in quelle dispense in linguaggio giuridico, ma il cui senso è la “fatica” dello Stato ad ordinare la società. Vi è la tensione tra Stato e masse, che è presente nel pensiero del primo dopoguerra ed a cui Ortega y Gasset ha dato il titolo incisivo: “La rebeliòn de las masas”. Non si sente in lui traccia del pensiero cattolico tradizionale, non un riferimento a San Tommaso, allora il maestro indiscusso del pensiero cattolico.
La “fatica” dello Stato è l’opzione opposta al “potere di decisione” di Carl Schmitt, ma infine ha di fronte il medesimo problema. Moro ha per riferimento lo Stato e non le masse non è un uomo di sinistra. È un uomo d’ordine, un uomo che vuole condurre le masse all’interno dello Stato, ma conservando lo Stato. Quelle dispense indicano che Moro ha già pensato in modo originario il problema politico ed in termini non cattolico sociali, ma di pensiero contemporaneo.
Le letture “fucine” di quegli anni, Jacques Maritain e, in parte minore Emmanuel Mounier, non sembrano lasciare incidenza nel suo pensiero. Possono essere per lui lo strumento di propaganda, ma non di dottrina.
Le origini di Moro vanno cercate attraverso la filosofia del diritto: e tuttavia egli non ha citato, nelle dispense, le sue fonti. Il testo non contiene una citazione. Però Moro vive nell’ambiente culturale del suo tempo ed è un pensatore della crisi, una forma culturale che diventerà dominante in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Egli aderisce alla corrente dossettiana, credo per motivi di generazione e di cultura, ma, mentre l’interesse dominante di Giuseppe Dossetti è la Chiesa, l’interesse dominante di Moro è lo Stato. E le ragioni di quella scelta sono legate al fatto che Montini si opponeva a dare rilievo politico ai Comitati Civici di Luigi Gedda e puntava sulla autonomia politica della Dc.
Il Moro dossettiano era tale per motivi interni al mondo cattolico, ma rimaneva legato non solo al governo De Gasperi ma alla politica di De Gasperi. Il Moro degli anni ’50 è infatti un politico di centro destra, che si impegna ,ad esempio, a mantenere intatta la giurisdizione dei tribunali militari. E quando egli diviene nel ’59 segretario della Dc, lo fa contro la sinistra di Fanfani, che punta sull’accordo con i socialisti.
Moro non ha mai creduto all’autosufficienza della Dc: avendo Fanfani rotto, con l’appoggio di metà partito, l’alleanza con i liberali a Moro non rimane che gestire la sola alleanza laica disponibile: quella che comprende, oltre i repubblicani di La Malfa e di socialdemocratici di Saragat i socialisti di Nenni. Egli gestirà da destra il primo centro sinistra di cui è l’unico presidente: dal ’63 al ’68. Moro avverte l’insufficienza del mondo cattolico a governare il paese senza un apporto determinante della cultura e della politica laica.
Il ’68 incide sul pensiero e sulla politica di Moro. Da allora anche il Pci gli sembra un limite contro il sessantottesimo e poi contro il terrorismo, il politico che ha il coraggio di affrontare il nodo interno alla sinistra: il conflitto tra il Pci e la sinistra parlamentare divenuta sinistra terrorista. Ed è in questo sviluppo che perderà la vita.
Moro è un uomo d’ordine, un uomo di Stato e non appartiene in nessun modo alla cultura di sinistra: né a quella comunista né a quella cattolica. Con Giovanni Tassani, interpretammo il Moro segretario e di Moro che passa all’opposizione nella Dc (1962-1972). Ma la fatica terminò lì perché l’editore non volle continuare nella lettura di Moro come uomo d’ordine, uomo che voleva condurre nello Stato le “masse”, anche quelle di un nuovo conio, intellettuali e raffinate, che operavano il terrorismo.
Il suo ultimo tentativo, il dialogo con le Br, è significativo. Per un verso egli persegue l’opera di trovare un punto di intesa tra terrorismo e Stato. Per altri versi, dà sfogo ai suoi pensieri riposti sulla Dc: L’unico a comprendere l’intuizione di Moro è Bettino Craxi: di qui nascerà il nuovo Psi. Può essere che il rapporto tra Stato e masse come problema centrale, la concezione dello Stato come fatica, abbia inciso sulla condotta politica di Aldo Moro.
Ma è un fatto significativo che la sua morte fu il principio della sconfitta sia del compromesso storico che del terrorismo; chi difenderà Moro dalla leggenda storica che lo vuole uomo di sinistra? Si può criticare la sua concezione politica, ma l’icona di Moro, comunista e democristiana, è una delle più visibili menzogne dell’asse di potere che ha collegato i due partiti. Per questo si deve dar per vera la tesi insostenibile che le lettere di Moro dal carcere non sono le sue.
Giulio Andreotti ha sempre evocato nella mia mente la figura del cardinale Antonelli. E in genere quello della diplomazia vaticana. La Chiesa cattolica ha sempre unito alla fermezza nei principi la flessibilità nei metodi: e la diplomazia vaticana ha espresso felicemente questa flessibilità. Giulio Andreotti è il personaggio più eminente della politica politicante italiana, uomo per tutte le stagioni, che conserva intatto il suo potere anche sotto il fuoco dei processi di Palermo, di cui è già di fatto il vincitore. Niente più del suo intatto potere indica la doppiezza del golpe italiano, che ha distrutto le forze democratiche, ma non coloro che avevano il loro insediamento non nei partiti, ma nelle istituzioni.
Giulio Andreotti è un uomo di istituzioni, non di partito. Il suo potere nel partito è un riflesso del suo insediamento nelle istituzioni. Andreotti non ha svolto un ruolo nella storia della DC in quanto partito: la corrente andreottiana non si poteva definire né di centro né di destra né di sinistra: era il puro riflesso nel partito del potere di Andreotti nelle istituzioni. Mentre la storia di Moro è una storia politica, quella di Andreotti è un percorso senza storia, come senza storia è il potere burocratico in quanto tale. Andreotti è un uomo di puro potere senza politica: ed è un uomo di potere di grandi qualità.
Andreotti si è posto come il politico fedele al Vaticano in quanto tale: non è mai venuto meno a questa fedeltà: e questa fedeltà lo ha protetto.
Nei giorni dell’inizio del processo di Palermo fu applaudito da una platea di cardinali: ed avevano ragione. Andreotti ha sempre considerato la politica italiana a partire dal Vaticano, ha fatto si che la politica italiana fosse il braccio secolare della politica vaticana. E non si è tirato indietro nemmeno nei giorni burrascosi dello Ior e del Banco Ambrosiano. La componente non atlantica della politica estera italiana (sia verso il mondo sovietico che verso il mondo arabo) è in gran parte opera sua. Questo non squalifica la sua politica estera di per sé, ci sono vantaggi che questa politica ci ha procurato. Inoltre il peso del Pci nella politica italiana non avrebbe consentito una politica atlantica ortodossa.
Andreotti ha quindi tenuto realisticamente conto che le due maggiori potenze politiche italiane, il Vaticano e le Botteghe Oscure volevano sostanzialmente la medesima politica estera. Mattei, Gronchi, Fanfani e La Pira avevano aperto, come linea di principio quella politica verso l’Est ed il Sud che Andreotti avrebbe condotto con maggiore professionalità. Anche grazie a lui la neutralità vaticana diviene una dimensione fondamentale della politica estera italiana.
L’opera di Andreotti è difficilmente giudicabile, appunto perché egli non ha dato una interpretazione di sé stesso. L’understatement andreottiano è proporzionale alla sua intensa capacità operativa.
Per trovare le tracce di Andreotti bisogna cercare nelle leggi, negli atti ministeriali, nelle politiche reali: questa mano, che non ha mai scelto una politica, le ha gestite tutte. Scrivere la storia politica di Andreotti è un compito difficile e non fascinoso per gli storici, e ci vorrà molto tempo, ma sarà la biografia che descriverà meglio il sistema politico Italia.
In nessuna opera politica da lui compiuta Andreotti non ha mai messo tanto sé stesso da non poter pensare a quella opposta. Mentre gestiva il Caf con Craxi e Forlani, pensava di diventare capo dello Stato con voti comunisti: ma questa non era incoerenza politica, perché la sua politica era quello di dare forma al gioco delle forze.
Sarebbe stato un efficace operatore politico in ogni regime. Drammaticamente anche per lui, sentì di dover abbandonare Moro al suo destino. Non poteva mettere in crisi il Pci, che era un asse portante dell’equilibrio politico italiano. Anche in quel caso, la sua scelta drammatica non fu una scelta banale. Del resto, la storia di Andreotti è tutt’altro che conclusa.
Gianni Baget Bozzo
Inviato a IdeAzione il 4 giugno 1998