25 agosto 2024
Ventunesima domenica del tempo ordinario
La dura prova della fede che Gesù impone ai suoi discepoli

Gs 24, 1-2a.15-17.18b
Sal 33
Ef 5, 21-32
Gv 6, 60-69

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono».
Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Commento al Vangelo della Domenica di don Gianni Baget Bozzo

La dura prova della fede che Gesù impone ai suoi discepoli

Non leggiamo, nella calda estate, Vangeli facili. Il discorso eucaristico è il più difficile testo del Vangelo di Giovanni e, al tempo stesso, uno dei passaggi qualificanti del Nuovo Testamento. I discepoli mormorano contro Gesù. Se si pensa che, solo il giorno prima, molti di essi pensavano di farlo re, si comprende lo scandalo per una parola che propone la sua carne come cibo e il suo sangue come bevanda. Gesù non rende più facile il loro compito: non si spiega, non spiega. È la dura prova della fede.

Egli chiede loro di amarlo senza capirlo: non è, ovunque, in ogni tempo umano, questa la suprema prova d’amore? E lo è anche, e soprattutto, quando Dio si pone come oggetto di puro amore. Non è in gioco solo la dinamica dell’amore umano, che va oltre la ragione, ma la trascendenza divina, in cui la parola va oltre il concetto. Non si può racchiudere Dio nel discorso umano.

Non lo si può soprattutto quando egli manifesta la sua onnipotenza ponendola da lato: divenendo uomo, pane, vino. In questa condizione, si può riconoscere l’amore divino soltanto salendo quanto lui è disceso, affidandosi non allo splendore della natura, ma alla voce umana, a una parola umana, ai segni che essa traccia nelle cose. La fede indica questo andare oltre i sensi e oltre la ragione, come Dio è andato, per dir così, oltre lo status della divinità. Gesù chiede ai discepoli la fede nelle sue parole quando, proprio nella loro incomprensibilità, esse esprimono, in un’umiliazione senza limiti, l’assolutezza dell’onnipotenza, che va oltre la sua stessa maestà.

Proprio mentre egli ha affermato che vuol dare la sua carne per cibo e il suo sangue per bevanda, egli aggiunge, nel brano di Vangelo che oggi leggiamo: «… è lo Spirito che dà vita, la carne non giova a nulla». Con ciò egli vuol escludere una lettura materiale delle sue parole: non è la sua carne mortale che egli vuol dare come cibo, ma quella resa divina, tramutata nella realtà di Dio, dalla potenza della risurrezione.

Non a caso egli ha sempre indicato sé stesso come il Figlio dell’uomo, cioè come l’uomo eterno, oltre il tempo e lo spazio, che la sua carne diviene, nel momento in cui egli ritorna al Padre. È di quella carne e di quel sangue glorioso ed eterno, di quella carne gloriosa ed eterna, che egli vuole cibare i suoi amati affinché divengano a lui fratelli non solo nella vita mortale, ma nella vita eterna, non solo nell’umanità ma nella divinità. Lo Spirito Santo compie il passaggio: per virtù dello Spirito il Verbo è divenuto carne, per virtù dello Spirito Santo la carne diventa Dio: «… le parole che vi ho detto sono Spirito e vita».

Non sono Vangeli facili, quelli che leggiamo quest’anno e torneranno tra due anni nel ciclo delle letture evangeliche della Messa. Oggi è comune dire che basta amare e tutto ci è donato perché l’amore è Dio. E questo è vero, l’amore è l’essenza di Dio, «chi non ama rimane nella morte». Nelle sue lettere Giovanni dirà queste cose nella forma piè semplice. Ma l’amore, che è esso
stesso conoscenza, come afferma san Gregorio Magno, ci dispensa dalla conoscenza della fede, dalla gioia della pienezza misteriosa che Dio ci ha rivelato in Gesù Cristo?

Si può amare senza non voler sapere nulla dell’amato? Si può credere senza donare a colui in cui si crede la pienezza dell’attenzione, la delicatezza delle attenzioni? La morte è il problema dell’uomo, la sfida di cui conosceremo il senso solo quando ne avremo superato la soglia. Allora apparirà nato in noi il Figlio di Dio che abbiamo partorito nel nostro tempo mortale, il Dio che siamo divenuti nel tempo.

Possiamo essere cristiani se la morte è per noi solo paura o tristezza, come ci accade oggi? Con Pietro, ripetiamo al Signore che egli solo ha parole di vita eterna; ma possiamo poi vivere come se esse non fossero per noi «Spirito e vita»? Solo l’attenzione alle parole del Signore ci anticipa nel tempo il gusto dell’eternità.

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